Cercate di figurarvi la scena. Le carrozze ferme di fronte all’ingresso del teatro, le eleganti signore che scendono con l’espressione lieta di chi può permettersi una prima. I signori in smoking e baffi d’ordinanza che le prendono padronalmente per il braccio e le accomodano sulle poltrone rosse del Teatro Valle, allora rifulgente e non chiuso. E’ il 9 maggio del 1921, anno ultimo prima dell’Era Fascista, e sul palco esordiscono i Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.
S’apre il sipario. E ci si ritrova nel bel mezzo di un sipario non aperto, ove gli attori stanno provando sotto la direzione del Capocomico un’opera di Pirandello medesimo. Si presentano in scena dei personaggi, esuli di un dramma non scritto: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto e la Bambina. Questi profughi del teatro spiegano al Capocomico la loro storia, per la quale furono inventati e che non poterono mai rappresentare: in seguito al tradimento della Madre con il segretario, il Padre si allontana dalla famiglia, lasciandola sola con il Figlio. La Madre avrà dal segretario altri tre figli, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina, ma in seguito alla morte dell’amante si troverà in cattive acque, costretta a lavorare per la grottesca Madama Pace. Costei costringerà la Figliastra a prostituirsi, e il destino vorrà che il cliente sia proprio il Padre. Il Capocomico, ascoltata la storia, resterà colpito e deciderà di rappresentarla con i suoi attori, ma essendo il risultato non credibile saranno i Sei personaggi stessi ad interpretarla. La Madre impedisce il mezzo incesto tra il Padre e la Figliastra. Dopo un sipario bruscamente calato, la storia riparte con la Bambina trovata morta, e il Giovinetto che si suicida. Gli attori della compagnia non capiscono se è recita o realtà: ma il Padre conferma il dramma compiuto. La conclusione è onirica, con un faro erroneamente acceso che proietta in scena le ombre dei Personaggi a travolgere il Capocomico terrorizzato. Il Padre, la Madre, il Figlio usciranno quindi sul palco rimasto vuoto, soli in mezzo alla scena. La Figliastra fuggirà via, ridendo agli altri come ammattita.
Se il lettore del 2015, avendo conoscenze dei temi del teatro nel teatro di Pirandello e del teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco, non ci avrà probabilmente capito nulla, figuriamoci le signore in abito da sera e i signori dagli alti cilindri seduti i platea nel 1921 come ci saranno rimasti. E infatti le cronache dell’epoca sono molto saporite. Scrisse Arnaldo Frateili su l’Idea Nazionale: “La lotta tra plaudenti e disapprovanti ha toccato intensità sonore mai raggiunte. Venti minuti dopo la fine dello spettacolo buona parte del pubblico era ancora in teatro a discutere ad alta voce, chiamando tra grandi applausi l’autore che dovette presentarsi un numero infinito di volte, mentre i più fieri avversari della commedia urlavano in coro il loro sdegno.” Ed è la narrazione di un cronista di parte, fraterno amico di Luigi Pirandello, che tuttavia è costretto ad ammettere come gli scontri “si rinnovarono anche sulla pubblica via, e si protrassero a lungo, risvegliando nel silenzio della notte echi che devono aver sorpreso e spaventato non poco quelli che dormivano il loro sonno meritato nei pressi del teatro.” Bene o male purché se ne parli, diremmo oggi: ma il Pirandello demoralizzato di quei primi anni senza la moglie Antonietta, ricoverata presso un ospedale psichiatrico nel 1919, e gravato da crescenti ristrettezze economiche dovette vivere ansiosamente l’esito contraddittorio della commedia sul pubblico romano.
Il giornalista e critico Bruno Schacherl (1920 -2015) scrisse sul teatro nel teatro (che Pirandello avrebbe implementato con Ciascuno a suo modo, nel 1924, e Questa sera si recita a soggetto, nel 1930) parole di rara precisione, mutuate da un’attenta analisi del grande critico e amico-nemico dell’autore agrigentino, Adriano Tilgher: “Penso che in Pirandello ci fosse, accanto a una tormentosa coscienza dei limiti del mestiere teatrale, una scoperta fondamentale, che lo oppone al naturalismo e lo collega alle ricerche teatrali più avanzate del suo tempo, fino a farne, come sappiamo, un precursore: la scoperta della ‘teatralità’ come ‘luogo’ dove confluiscono arte e vita, materia e forma, per cui il teatro diventa a un certo punto contenuto del teatro stesso, e la vita è spettacolo almeno nella stessa misura in cui lo spettacolo è vita.” Così è, in effetti, e la concezione di “luogo narrativo” come sintesi del dualismo – per Tilgher artificioso, per Pirandello naturalissimo e diremmo tipicamente sicilianista – tra Vita e Forma diventa da quel momento, dalla leggendaria prima al Teatro Valle nel 192, assolutamente doveroso (ancorché difficile) per molti altri autori del panorama letterario italiano del XIX e XX secolo. Una rivoluzione compiuta nel volgere di una serata, ma chissà in quanto tempo e lungo rimuginare nel cervello di quell’uomo dagli occhi febbrili cui oggi intitoliamo vie e scuole senza forse comprenderne a pieno la grandezza.
Valerio Musumeci