Nei giorni in cui i potenti cambiano l’Inno di Mameli e ammassano retorica con frasi del tipo “oggi inizia il domani”, “il futuro è solo l’inizio” e così via, a noi piace esordire guardando al passato e più precisamente ad un volume prezioso, rimasto inedito per lunghissimi anni e dato oggi di nuovo alle stampe dall’editore fiorentino Apice libri: stiamo parlando de L’Amore. Fisiologia – Psicologia – Morale, il ponderoso saggio che un insospettabile Federico De Roberto (proprio lui, l’autore de I Viceré) dedica al sentimento che incatena e dirige le nostre vite.
Diciamo insospettabile per due motivi, entrambi chiariti dal prof. Antonio Di Grado, che ha curato l’opera e firmato la prefazione. Il primo, di De Roberto si sconosce gran parte della produzione, e solo ultimamente I Viceré hanno riportato attenzione nei confronti di un autore che non fu soltanto romanziere robusto ma anche giornalista, critico letterario ed intellettuale impegnato: ampi spazi della sua opera rimangono oscuri o smarriti in edizioni preistoriche e quindi introvabili (come questa de L’Amore, pubblicato nel 1895); il secondo, di quell’Amore che dà titolo al volume De Roberto fa un resoconto puntuale e quanto più scientifico gli è possibile, ma irrimediabilmente pessimistico e senza speranza.
Così scrive (ed è una sorpresa minore per chi conosca la ferocia degli Uzeda di Francalanza): “Il più delle volte l’amore somiglia al negozio di due persone una delle quali s’ingegna di vendere una merce avariata mentre l’altra tenta di pagarla con biglietti falsi.” Oppure, indagando più propriamente l’atto sessuale: “… una serie di conati durante i quali è bensì assicurato il compimento della funzione riproduttiva, ma non reintegrato l’essere autonomo, non soppresso per gl’individui il danno della loro individuale impotenza.” Niente di più distante dalle illusioni di quanti ritenessero l’autore ben disposto verso il sentimento e quindi, in verità, verso sé stesso. Emerge dalle pagine del trattato (che è, diciamolo, ben corposo) un De Roberto irresoluto, intenzionato a mettere un punto ma dubbioso di riuscire.
Finisce così per dubitare di se stesso e di tutto il lavoro (sul quale metteva le mani avanti sin dalla prefazione) risolvendosi in una specie di relativismo di salvaguardia: “Verità e menzogna, come vantaggio e svantaggio, come progresso e regresso, come bene e male, sono termini indissolubili. E la più grande ed ultima verità sarebbe questa: che tutto è relativo; ma poiché il relativo non avrebbe senso se non s’opponesse all’assoluto, anche ciò è vero — fino ad un certo punto.” Con queste incalzanti parole l’autore chiude il saggio. Chi avesse tempo e modo si avvicini a questo testo particolare e misterioso, greve ed oscuro, al Federico De Roberto celato dietro il suo stesso mito di novelliere. Lo ricorda, citandolo, il prof. Di Grado concludendo la bella prefazione sui toni malinconici di un tema da pagliaccio triste: “Da un cantastorie tutti volevano delle storielle”.
Valerio Musumeci