Inutile nascondersi dietro un dito. Saremmo ipocriti se non ammettessimo che almeno una volta nella vita abbiamo in qualche modo preferito gli italiani agli stranieri, in qualsiasi contesto questa scelta si è stati chiamati a farla. Al semaforo ci voltiamo dall’altra parte, preferiamo che i nostri figli non abbiano extracomunitari nella stessa classe, se incontriamo donne e uomini che abbiano nera la pelle – e che abbiano lo status di “clandestino” scritto in fronte – cambiamo strada. Potrei continuare, ma non è razzismo questo. E’ difesa. Non è discriminazione. La discriminazione la mettono in atto loro, ci costringono ad usare il pugno duro contro la diversità di razza. Un concetto duro questo, ma è così. Sono un sostenitore tra i più convinti della libertà. Quella vera, senza fraintendimenti. Ma se libertà deve essere, lo deve essere per tutti. Lo straniero in terra straniera (il marocchino o il libico in Italia, per intenderci) ha il diritto di vivere da noi in libertà; com’è libera un’italiana qualsiasi di girare in minigonna senza avere la paura di essere stuprata dietro l’angolo.
E’ vero, anche dentro casa i disonesti non mancano. Ma provate a dare un’occhiata alle percentuali messe a disposizione dalle maggiori agenzie di sondaggi e statistica: vi renderete conto voi per primi che se domattina mettessimo alla porta tutti gli extracomunitari clandestini attualmente nel nostro Paese, assisteremmo ad una diminuzione sensibile ed immediata dei crimini in Italia di almeno il 30 o il 40%. Il concetto è molto semplice: chi parte in cerca di fortuna dalla propria terra di origine con destinazione l’Italia (l’unico Stato Sovrano occidentale che anziché tutelare se stesso tutela gli irregolari), arriverà qui nella quasi totalità dei casi senza la propria moglie o compagna (chi ce l’ha). E senza lavoro, perché quello lo straniero spera di poterlo trovare da noi. Nella maggior parte dei casi, questo povero sventurato (ed è la maggioranza dei casi) scapperà dal centro di prima accoglienza per raggiungere altri suoi amici già presenti sul territorio. Senza lavoro, senza soldi, prima o poi quell’uomo sarà costretto per forza di cose a delinquere, mettere in atto una rapina per potere almeno mangiare. Se gli va bene, riuscirà a scappare senza essere identificato. Se gli va male (e per reati non gravi), la polizia gli metterà un foglio in mano con su scritto: devi andartene entro tre mesi, vai. Il massimo della repressione italica messa in atto contro la delinquenza clandestina.
Lo stesso vale per gli stupri. A quanti di voi è capitato di accendere il telegiornale e sentire di donne possedute sessualmente contro la loro volontà da immigrati irregolari di cui a volte non si conosce nemmeno il nome? Anche qui, il concetto è semplice: un immigrato irregolare, senza permesso di soggiorno, senza lavoro e senza famiglia, è verosimilmente portato a desiderare una donna nel breve periodo. E a prendersela con la forza. E’ vero o no? Quale donna italiana sarebbe disposta a concedersi spontaneamente? Ad intraprendere una relazione? Ed ecco la notizia: stupri continui ai danni di giovani e meno giovani italiane, private della loro libertà. In casa loro, in Italia. E’ ancora accettabile questa situazione? No di certo. Vero è che nemmeno gli italiani sono proprio dei santi. Ma anziché preoccuparci del sovraffollamento delle carceri (problematica che risolveremmo domani mattina se decidessimo, mettendo le palle sul tavolo, di mandare via tutti gli irregolari), faremmo meglio a focalizzare la nostra attenzione sul come e in quanto tempo mettere al primo posto l’italianità, gli italiani, noi.
Il cuore piange per la recente tragedia consumatasi a Lampedusa tempo addietro. Ma sono morti, queste, addebitabili al buonismo di un Paese che la stessa Europa disprezza con tutta se stessa. Un Paese ignorato nelle sue emergenze più grandi e odiose, e però vessato per primo dalle politiche fiscali ed economiche. Non è così che si fa l’Europa, non è questo quello che vogliono gli europei. Non è questo che vogliono gli italiani.
Chi come me crede nella libertà non smetterà mai di ringraziare chi da altri Stati ha scelto l’Italia per crearsi il proprio futuro, la propria famiglia, il proprio benessere, contribuendo così legalmente alla ricchezza nazionale. Ma smettiamola di indispettirci così tanto quando ascoltiamo Roberto Calderoli prendersela con l’allora ministro per l’Integrazione, Cecile Kyenge, congolese di origine a sua volta immigrata in Italia, oggi ministro della Repubblica Italiana, che un giorno sì e l’altro pure rilasciò da componente del governo dichiarazioni che sarebbero risultate inopportune per chiunque. L’ex ministro del Porcellum Roberto Calderoli sarà stato pure colorito, e le sue parole non sono in ogni caso condivisibili; ma chi non ha pensato anche solo per un momento che la presenza dentro ad un governo di larghe intese com’è quello di Enrico Letta, di una nera del Congo sia quantomeno discutibile? Lo stesso vale per la presidente della Camera, Laura Boldrini. Suvvìa, non disertate anche voi di fronte alla necessità di riaffermare in modo forte e chiaro la nostra appartenenza, specie in un momento di così forte crisi di riferimenti, in un momento in cui si svende quotidianamente sovranità a favore di una Europa sempre più svuotata del suo principale obiettivo.
La cittadinanza facile, insieme all’impunità di veri criminali, sono vere e proprie istigazioni al razzismo, al porre la diversità come metodo di autodeterminazione sociale ed etica, nel tentativo appassionato e civile di riappropriazione della nostra identità. Perfino il giorno di Lutto Nazionale, proclamato a ridosso della strage di migranti a Lampedusa, è risultato a molti inopportuno, esagerato e discriminante relativamente ad altri grandi drammi che invece anche recentemente hanno colpito e continuano a colpire il nostro Paese. I più di trenta morti del naufragio della Costa Concordia all’Isola del Giglio, per citarne uno, o le decine di suicidi di imprenditori che disperati hanno preferito togliersi la vita che vedersi rubata la dignità il più delle volte dalle stesse Istituzioni, puntuali nell’esigere le imposte e strafottenti nei pagamenti alle imprese che lavorano per la cosa pubblica. Sono questi i drammi verso i quali le Istituzioni avrebbero dovuto e dovrebbero ancora mostrare maggiore sensibilità e attaccamento.
Andrea Di Bella, direttore editoriale