di Valerio Musumeci
La storia, la grandezza, gli applausi scoscianti in un teatro che diventa casa e vita, estensione del corpo dell’attore che sulle assi raccoglie l’ovazione e la trasforma in nuova storia, in nuova grandezza, in nuova vita. Tale è quell’arte che si chiama il morbo di Eduardo (« … è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato»), soggetta come tutte le arti allo stordimento del tempo presente che ce la consegna fiacca e scordata, orfana di grandi interpreti che ne cogliessero l’appartenzenza come condanna, come malattia appunto o vocazione. Va da sé che quando uno di questi interpreti ci lascia non possiamo che piangerlo a lacrimoni grossi così: un altro gigante cade piegato dal tempo, le valli e i templi della poesia si fanno ancora più vuoti. E non abbiamo idea di come riempirli.
Dunque è morto Giorgio Albertazzi. Aveva novantadue anni, la cosa non ci tocca da un punto di vista umano – che tutti si muore, e arrivarci a quell’età – ma artisticamente ci lascia storditi, spaesati, come in preda alla sindrome di Ménière. Si trovava in casa della moglie Pia de’Tolomei. Progettava di tornare sulle scene insieme a Franca Valeri, una delle gigantesse ultime del teatro. Lo avevamo visto ultimamente – ci sarà concesso un ricordo personale, è d’altronde tipico dell’elaborazione del lutto – in un documentario divulgato dai Radicali per celebrare la morte di Pannella. Recitava qualcosa, rivendicava altre cose. Non sembri strano trovarlo lì, a sinistra della sinistra e a destra della destra: l’uomo aveva idee contraddittorie come se ne devono avere in una vita di dieci decenni, Bertrand Russel in questo senso insegna ma anche Montanelli, ma anche Carl Barks e tutti i grandi vecchioni che sapere che c’erano era consolatorio, assuntivo, assiomatico. Sarebbe venuto il momento che sarebbe arrivato nella nostra città, l’Albertazzi mai troppo vecchio per far parte di una compagni di giro, e viaggiare e viaggiare, e sarebbe stato gratificante andarlo a vedere e rivendicarne una sorta di possesso, “appartengo al popolo che ha dato i natali a quest’uomo”, non tutto è vergogna, non tutto è degrado. Ci lasciamo andare e lo sappiamo, ma non sapremmo come altro affrontare un discorso intorno all’illustre scomparso: come riassumere tanta vita e tanta arte, tante storie e tanti applausi?
Nel 2014 era stato il concorrente più anziano nella storia di “Ballando con le stelle”. Con la strepitosa Elena Coniglio inscena un valzer elegantissimo dove non solo balla, ma se la gode anche moltissimo ad esplorarle la coscia nel convenzionale casqué. Vincerà la targa Paolo Rossi per l’esibizione più emozionante, il rispetto dovuto ad un uomo anziano che decide di mettersi in gioco, si dirà: se non che l’esibizione è accompagnata da un monologhetto, e in queste cose Albertazzi non aveva concorrenti naturali. “Leone” lo si chiamava, per il capello bianco folto all’indietro e capace ancora di ricadere in un ciuffo quando si levava il cappello, ma soprattutto per la volontà dichiarata di non arrendersi a quelle troppe ere che si andavano sedimentando sulle sue spalle. Soltanto all’ultimissimo era stato tentato di allentare la presa sulla vita: « «Sto andando via, lo so benissimo. Lo so e lo sento, e non me lo nascondo – diceva pochi mesi fa a una sconvolta collega del Quotidiano Nazionale – Ho il coraggio di dire che sto morendo. Come fai a essere meravigliata? (Sorride, il panico della collega aumenta) Perché, non è la verità? Non giriamoci intorno, dài. Che vuoi che sia. Io non ho paura e non è una cosa strana. Semplicemente la mia vita è alla fine. Sto su questa sedia, ho l’età e non ho forze. Non ho bisogno di medici che me lo dicano. Non ho bisogno di farmaci che mi illudano. La vita è fatta così. Inizia e poi finisce». E mo’ che è finita davvero che si fa? Non abbiamo la tempra del leone, noialtri.
Ma poi ancora il ruggito, lo sforzo troppo umano e appunto leonino di riprendere le fila di un discorso, come riacchiappare la battuta rimasta tronca dopo l’attacco distonico di un secondo attore che evidentemente non ha mai recitato a soggetto. «Il sogno, perché ovviamente di questo si tratta, sarebbe di mettere in scena “Giulietta e Romeo” interpretato da due vecchi. Da me e da Valeria Valeri. Per farlo alla rovescia e in qualche modo iniziare dalla fine. Esiste qualcosa di meglio dell’età matura per studiare i sentimenti? I vecchi hanno un po’ capito la vita, non tanto ovviamente. Ma un po’ sì. Forse per potersene andare con serenità, consapevolezza e amore». Lo stesso amore e la stessa tenerezza con cui è stato ricordato ieri a Villa Tolomei, la magione della nobildonna toscana che aveva sposato con rito civile nel 2007. Grandicello, ma tant’è.
La cerimonia si è svolta riservatamente, come si conviene alle leggende scomparse di tutte le arti tranne la politica (quelli lì vogliono il funerale di Stato, per mendicare in morte il rispetto perso in vita). Del resto Albertazzi non era credente, lo aveva dichiarato riuscendo ad infilarci un paragone kafkiano, e figuriamoci se uno come lui poteva dare l’impressione di arrendersi a un falso mito dopo aver rappresentato miti falsi per tutta la vita. Ma quelle ultime frasi non sapevano nascondere la riflessione, il discernimento: e tutta la sicurezza leonina mostrata sul palco – pur nel coraggio – non c’era di fronte all’andarsene, al consegnarsi al Nulla o la Tutto. «È bello che l’uomo sia anche così, come una sfera, di una qualità piu sottile – diceva ancora al QN – E che vada oltre ai cinque sensi è una pulsione interessante. Chi gliel’ha detto, all’uomo, di Dio?». Già, chi? E chi lo dirà all’uomo che c’era una volta Albertazzi? Riposi in pace, noi ci abbiamo provato.