Ebola in Italia: intervista a Fabrizio Pulvirenti, medico contagiato dal virus

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Fabrizio Pulvirentidi Marco Iacona

Il peggio è passato. Fabrizio Pulvirenti (lui stesso ci autorizza a pubblicarne il cognome) cinquant’anni, medico catanese ma residente a Enna, ci rilascia intervista esclusiva a un mese dal ricovero allo Spallanzani di Roma per aver contratto il virus Ebola.

Fabrizio, cosa spinge un medico ad andare con Emergency tra i poveri e i disagiati del mondo?
Da molti anni vedo che esistono profonde, radicali differenze tra il Sud e il Nord del Mondo, tra i cosiddetti Paesi civili (ma mi limiterei a definirli “industrializzati”) e i Paesi in via di sviluppo. Credo che ci siano alcune differenze che possono essere accettate – i salari, lo stile di vita, il culto, la politica interna – ed altre che invece sono inaccettabili; uno di questi è il diritto alle cure. Sposare la causa di Emergency per me ha significato essenzialmente questo, portare un po’ di medicina “occidentale” a chi è stato meno fortunato di noi.

Quale tragitto hai compiuto? In quali nazioni cioè hai svolto la tua missione umanitaria? Che ambienti hai trovato?
Prima della Sierra Leone sono stato in Kurdistan in un campo profughi. Naturalmente si tratta di due esperienze assolutamente diverse

Ci vuoi raccontare quando hai cominciato a stare male, cosa avvertivi e che decisione immediate sono state prese?
Il mio primo sintomo è stato il vomito; avevo visto tanti pazienti con il vomito incoercibile e lì ho avuto il sospetto. Poi è arrivata la febbre a 39°,5 e il sospetto è diventato quasi certezza tanto da spingermi a fare l’esame (la PCR) per la ricerca del virus. Quando ho ricevuto l’esito è stato orribile, quasi un verdetto di condanna. All’inizio ho pensato di restare in Sierra Leone e curarmi lì poi, però, hanno prevalso gli affetti; ho pensato alle mie figlie, soprattutto, ed ho chiesto di essere trasferito in Italia

Una volta a Roma hai goduto del privilegio di una grande mobilitazione e sei riuscito a sconfiggere il male. Cosa ti senti di dire a chi ti ha curato e a chi – una nazione intera – faceva il tifo per te?
I ringraziamenti sono scontati. Vorrei che le stesse energie potessero essere impiegate anche laddove c’è ancora il focolaio vivo dell’epidemia. Non sono un eroe, questo è chiaro. Sono solo un soldato che si è ferito durante una battaglia.

Oltre al presidente Napolitano hai avuto altre chiamate dai vertici istituzionali?
Si, ho ricevuto una telefonata dal Ministro Lorenzin

Come stai adesso?
Adesso sto molto meglio, riesco a fare quasi tutto in autonomia ma non ho ancora del tutto recuperato.

Da medico ed esperto di malattie infettive cosa ti preoccupa di più per il diffondersi dell’epidemia di Ebola?
Le epidemie sono molto difficili da controllare, questo è noto. Questa è la prima volta che una epidemia di febbre emorragica assume tali dimensioni coinvolgendo addirittura più Paesi. Ciò che mi preoccupa di più è il pregiudizio delle persone e la paura (che è pure naturale). Credo che con un intervento radicale, ben organizzato nel focolaio la diffusione possa essere fermata ma le strutture sanitarie di questi paesi sono troppo fragili e non hanno retto il colpo. Credo sia possibile curare le persone che si infettano con un buon supporto intensivo, ripristinando i liquidi che si perdono e tutelando la funzionalità renale e abbattere la letalità di questa malattia.

La domanda più difficile, nei momenti bui cosa hai fatto, hai pregato? Cosa ti ha dato la forza per sperare? Forse anche la tua particolare fede nell’ordine spirituale delle cose (della quale ovviamente sono a conoscenza)?
Naturalmente la visione «spirituale» della vita aiuta molto in taluni momenti; ma il punto non è questo. Non ho pregato né ho sperato in un trattamento di favore ho soltanto lasciato che l’acqua del fiume fluisse, senza dighe né argini e che raggiungesse liberamente la sua meta.

Cosa prevedi a breve scadenza? Che farai? Professionalmente intendo dire…
Spero di tornare quanto prima al mio lavoro in ospedale e poi, non appena mi sarò ripreso, rivaluterò il ritorno in Africa.

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