Dov’eravamo rimasti? Ah sì, al ddl Zan che, lo scorso ottobre, è stato fermato a Palazzo Madama dalla «tagliola» di Roberto Calderoli. Uno stop dopo il quale molti cosiddetti vip – da Lady Gaga fino ai Måneskin – hanno espresso il loro disappunto senza però, ecco il punto, portare uno straccio d’argomento che non fosse il solito discorso della «norma di civiltà». Da allora, sono trascorsi sei mesi ed ecco che il ddl Zan è tornato oggi al Senato: tale e quale.
Stesso identico testo; stesse inopportunità (in Italia esiste già l’aggravante dei «motivi abietti e futili» per chi agisce violenza su un omosessuale perché omosessuale); stessa assenza di motivazioni (i casi di omofobia son già calati di quasi il 30% tra il 2019 e il 2021); stessa carica ideologica, con la previsione quell’identità di genere di fronte alla quale non i conservatori, ma femministe (come Marina Terragni) e perfino ex presidenti nazionali di Arcigay (come Aurelio Mancuso) sono perplessi.
Vien dunque da chiedersi perché il Pd sia così intestardito con una norma che, ci si faccia caso, non dà quasi nulla a nessuno, ma in compenso toglie molto a tantissimi, a partire dalla libertà di esprimersi criticamente, per esempio, verso l’utero in affitto e il transgenderismo dei minori. Anzi, no: forse è proprio per questo che la forza guidata da Letta si è fissata con questo tema, perché il ddl Zan sbriciola molte certezze anche antropologiche e il Pd, in fondo, non è altro che questo. Il Partito della Demolizione.