Ora sono ventuno, cioè pochi. Sì, perché Christina Ozturk, giovane milionaria russa, lo scorso febbraio – quando di pargoli ne possedeva “appena” dieci – aveva annunciato di volerne oltre un centinaio. 105, per l’esattezza. Intanto, insieme al marito, Galip Ozturk, facoltoso proprietario di hotel, è però arrivata a quota ventuno. Numero non banale, considerando che son stati tutti comprati con l’utero in affitto. La cosa però non frena affatto l’entusiasmo della Ozturk, che su Instagram vanta un seguito di 200.000 persone.
Ma pure tra le pareti domestiche non si può dire la donna sia sola: ha un esercito di sedici tate e ogni settimana le servono venti grandi sacchi di pannolini e cinquantatré confezioni di latte artificiale. La donna non è ancora del tutto appagata dalla collezione di bebè («non vediamo l’ora che la nostra famiglia sia completa»), ma comunque vede crescere bene i suoi primi ventuno figli. «Tutti i bambini», spiega, «hanno la stessa età, i loro legame sarà quindi ancora più forte, mentre impareranno insieme tutto quanto». Perché raccontare questa storia, senz’altro un caso limite?
Semplice. Perché svela appieno – di certo meglio di tante storie di coppie apparentemente ordinarie – la logica perversa dell’utero in affitto. Che è quella, per dirla col mitico cumenda, Guido “Dogui” Nicheli, del «guadagno, pago, pretendo». In quest’ottica, i figli non son dunque persone, ma cose da comprare anche se, per celare il proprio egoismo, meglio raccontarla in altro modo. La sostanza però quella è e quella rimane. Il dato che colpisce è che c’è ancora, pure da noi, chi tenta di presentare la “maternità surrogata” come una via per realizzare i «sogni» di coppie che figli non possono averne. I «sogni»? Fantasia. Ne occorre davvero molta.