Per quanto possa apparire incauta, se non paradossale, un’analisi sulle presidenziali Usa in ore in cui tante schede sono ancora di attribuzione dubbia o contestata, qualcosa su questo voto americano lo si può già dire con certezza: se Joe Biden ha vinto, Donald Trump non ha perso. Proprio per niente. Una realtà, si badi, ammessa a denti stretti anche da alcuni commentatori democratici – che parlano di «vittoria politica, ma non morale» – e che risulta emergere da più aspetti anche a prescindere dall’esito definitivo che emergerà dalle urne. In particolare, almeno tre sono le considerazioni degne di nota che a tutti dovrebbero ispirare una riflessione, se non altro perché poggiano su riscontri ormai non più contestabili.
La prima considerazione riguarda il fatto che il tycoon è stato votato quasi da un americano su due. Dipinto negli ultimi tre mesi come in declino, anzi politicamente finito, Trump – il cui necrologio istituzionale era praticamente già scritto, stampato e affisso – nelle elezioni Usa più partecipate di sempre ha raccolto voti ovunque. Tra l’altro, dalle prime rilevazioni pare che il presidente uscente abbia incassato il favore dell’11% degli afroamericani, del 30% degli asiatici e del 31% degli ispanici. Percentuali in tutte e tre i casi superiori di tre punti rispetto a quelle riscontrate nel 2016. Il che alimenta un interrogativo cui pare impossibile sottrarsi: ma Trump non era colui che, incoraggiando il razzismo e i pestaggi della polizia, era odiato dalle minoranze?
Seconda considerazione. Forse Trump non ha battuto Biden, ma di certo ha battuto – alla grande – i sondaggi. Tuttavia, dato ciò è già avvenuto nel 2016, viene ora spontaneo domandarsi a che parte stiano giocando gli istituti di rilevazione. Perché le possibilità ormai sono soltanto due: o abbiamo a che fare con professionisti che non sanno fare il loro lavoro – con conseguente invito a darsi all’ippica o, quanto meno, a cambiar mestiere – oppure costoro il loro lavoro, ecco, lo fanno fin troppo bene. Solo che non è quello di rilevare e raccontare i flussi di consenso della popolazione, bensì di orientarli, portando acqua al mulino della forza politica progressista di turno. Ciò pone un problema non demoscopico ma democratico non più eludibile.
Un terzo ma non meno rilevante pensiero riguarda, poi, il fatto che Trump, quasi pareggiando con Biden, ha di fatto vinto. Infatti, anche se nessuno osa ricordarlo, il tycoon ha contemporaneamente combattuto non solo contro un rivale – il quale ha tra l’altro potuto contare su finanziatori ben più generosi (solo il colosso abortista Planned Parenthood ha devoluto a Biden 45 milioni di dollari) –, ma contro i grandi media, il carrozzone di Hollywood, Greta Thunberg, le associazioni Lgbt, Meghan Markle e il principe Harry, Black Live Matters, una parte di vescovi e cattolici Usa e tantissimi altri ancora. Più che una contesa tra due candidati, insomma, si è avuto uno scontro epocale e polarizzato, che senza esagerare si può definire un tutti contro Trump. Che, ciò nonostante, non ha affatto perso.
Illuminanti, in proposito, le parole di Federico Rampini – non certo un invasato sovranista -, il quale nelle scorse ore, quando il risultato finale appariva più incerto di come appaia adesso, così twittava: «Anche se Biden prevale, come sembra più probabile…Vittoria striminzita, rapporti di forza quasi invariati rispetto al 2016. Il grande rigetto di Trump è una favola che ha guarito solo il conto economico di New York Times e Cnn». Valutazioni più che condivisibili, queste di Rampini, alle quali tuttavia può comunque essere mosso un rilievo: quella del grande tonfo di Trump era «una favola» oppure, invece, era una deliberata menzogna? La sensazione è infatti che a perdere, qui, non sia stato il tycoon ma un giornalismo che, anziché agire da cane da guardia del potere, ha scelto di esserne il pasciuto bassotto.