Il «caso» Armine Harutyunyan, la giovane armena apparsa sulla passerella di Gucci e criticata – anche molto ferocemente – per il suo aspetto, rappresenta un piccolo capolavorosia di marketing e sia d’ipocrisia da parte della cultura dominante, quella per capirci che ha nei grandi media i suoi megafoni e tentacoli. Il capolavoro di marketing, abbastanza intuibile, consiste nel fatto che, da giorni e giorni, il nome della citata, nota casa di moda è sulla bocca del conduttore del telegiornale come della casalinga, dell’avvocato come del fruttivendolo.
Ebbene, tutto ciò darà sollievo a Kering, gruppo del lusso francese (proprietario del marchio Gucci) che «ha visto nei primi sei mesi dell’anno un utile netto in flessione del 53% a 272,6 milioni di euro» (Il Sole 24 Ore, 28.7.2020). Il «caso» della modella armena è però, si diceva, un capolavoro pure d’ipocrisia. I benpensanti che affermano che la Harutyunyan – cui va piena solidarietà per le offese ricevute – abbia tutto il diritto di sfilare coi suoi lineamenti così, non proprio regolari, sono difatti gli stessi che negano al figlio concepito il diritto di nascere nel caso non fosse – per la madre o per la famiglia che lo aspetta – sufficientemente “normale”.
In altre parole, i paladini degli standard differenti operano part time: infervorati quando si tratta di passerelle, indifferenti o addirittura sul fronte opposto quando si tratta di sale parto. Il che alimenta un dilemma: la diversità è davvero un valore oppure no? Ha senso scaldarsi affinché una giovane dal fascino opinabile possa essere lasciata lavorare in quanto modella e non far nulla affinché un nascituro con la Trisomia 21 possa, almeno, esser lasciato vivere in quanto essere umano? Trattasi di una macroscopica contraddizione da parte di una cultura che non si accontenta della sua ipocrisia: pretende pure di farci la morale.