L’odio della cultura di sinistra nei confronti della famiglia è cosa nota e storica. Chi ha una conoscenza anche superficiale della storia infatti sa che subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre – il 19 ed il 20 dicembre 1917 – i comunisti, per destrutturare l’istituto familiare, si precipitarono a varare due provvedimenti: il primo, sul divorzio, stabiliva che bastasse la richiesta di uno solo dei coniugi per ottenerlo (Lenin definì l’iter giudiziario per il divorzio «vergogna borghese»), mentre il secondo decretò l’abolizione del matrimonio religioso in favore di quello civile.
Comunista è anche l’idea di abolire i termini padre e madre. Tra i primi a formularla, lo psichiatra comunista David Cooper (1931-1986), che decenni or sono scrisse: «Non abbiamo più bisogno di padri o di madri. Abbiamo solo bisogno di “maternage” e “paternage”» (La morte della famiglia, 1972). Orbene, pur essendo solo nipote alla lontana di quel mondo, il Pd non si è mai smentito nel suo lottare per lo scardinamento dell’istituto familiare: il «divorzio breve», l’abolizione del cognome paterno, le unioni civili e l’eterna lotta contro il «patriarcato» – lotta cara pure a Greta Thunberg, che in un editoriale per il forum dell’Onu sul clima se l’è presa con i «patriarchal systems» – sono lì a dimostrarlo.
Chi non fosse ancora convinto, può andare a vedere cosa ha proposto sempre il Pd nell’ambito della discussione, in corso in Friuli Venezia Giulia, sulla riforma sanitaria, ossia un emendamento con cui si propone di sostituire la parola «famiglia» con l’espressione «rete formale e informale della persona». Una modifica priva di finalità pratiche se non quella di portare avanti una lotta storica – in corso da oltre un secolo, lo abbiamo visto – contro quello che Tommaso d’Aquino chiamava «uterus spiritualis» (Somma teol. II-II, q. 10, a 10). Spiace solo, davanti a cotanto, decennale, conclamato odio verso la famiglia, che ci siano ancora tanti cattolici pronti a votare progressista.