Nelle aziende italiane — dice l’Eurostat — le donne guadagnano il 17,9% in meno degli uomini. La beffa è che, se si fanno un po’ di conti, calendario alla mano, si scopre che le italiane lavorano gratis 66 giorni su 365, quindi fino al 7 marzo.
Dall’8 marzo, quindi da oggi, cominciamo finalmente a essere retribuite. Una consapevolezza che rischia di rovinare la festa. Due cose vanno precisate. La prima: questo dato non tiene conto del settore pubblico, dove il divario retributivo tra uomini e donne si ferma al 4,4%. Molto basso anche perché qui si va avanti per concorso e non ci sono aumenti ad personam. La seconda è che il divario salariale «riassume» in sé tre forme di discriminazione diversa: la segregazione delle donne nei settori e nelle qualifiche meno retribuite, la maggior presenza di part-time involontario tra le dipendenti e infine il divario salariale in senso stretto, quello a parità di qualifica, carriera e anzianità di servizio. Che, a seconda delle rilevazioni, può arrivare al 5%. La disparità di trattamento in busta paga da una parte e l’aumentare dei carichi di lavoro casa-ufficio fanno montare la frustrazione. Talvolta la rabbia, repressa e sotto traccia, che per ora si scarica nei ménage familiari.
Il 67% delle donne si descrive insoddisfatta, dice di vivere una vita che non sente propria e di cui è stufa, tanto che la vorrebbe cambiare. Gli uomini insoddisfatti, invece, sono soltanto il 33%, la metà. «Le donne hanno fatto passi avanti sul terreno della parità. Ma la consapevolezza della strada che resta da fare, di quello che manca a una parità vera, le rende più insoddisfatte», interpreta Enrico Finzi, che ha condotto la ricerca per la sua start up Sòno. Un conto è pensare di cambiare vita. Un altro è farlo. Per ora prevale il disagio. Valore D — associazione d’imprese che si è mobilitata per un più equo trattamento delle donne sul fronte delle retribuzioni — ha elaborato i dati Inps sulle buste paga annue lorde delle donne in base ai livelli di inquadramento. Tra impiegati e operai il pay gap è più alto anche perché sono numerose le donne che lavorano part-time. Ma il divario retributivo è penalizzante anche per le dirigenti che nel 99% dei casi lavorano a tempo pieno: guadagnano un quinto in meno. «È fondamentale stabilire processi di selezione e crescita professionale che non penalizzino le donne, monitorando la presenza del divario salariale», auspica Barbara Falcomer, direttore generale di Valore D.
Molti Paesi stanno intervenendo con leggi ad hoc. In Italia non se ne parla. Da segnalare la normativa tedesca, dove nelle aziende con più di 200 dipendenti si può chiedere l’equiparazione dello stipendio a quello medio della propria mansione. Nel Regno Unito le imprese con più di 250 dipendenti sono obbligate a rivelare e pubblicare la differenza di salario tra uomini e donne. In Italia le aziende oltre 100 dipendenti sarebbero tenute a rilevare il pay gap di genere e comunicarlo ogni due anni alle consigliere regionali di parità. Fino a ieri molte imprese preferivano pagare una multa. Ora la procedura è stata semplificata e si spera che le cose migliorino. Bello sarebbe se il tema venisse affrontato anche oltre l’8 marzo.
Corrieredellasera