Ci sono leader politici incompiuti, che non diventano mai tali, ed altri la cui parabola si consuma con un’esperienza di governo. Luigi Di Maio, benché allaguida dei 5 stelle da non molti mesi, rischia invece di essere un caso a parte: quello di un «leader meteora» spentosi – politicamente parlando – appena dopo aver brillato. In effetti, il 4 marzo, che ha consacrato il movimento grillino primo partito d’Italia, pare ieri. Anzi, probabilmente lo è davvero. Eppure il drastico ridimensionamento dei 5 stelle inflitto dai cittadini agli appuntamenti elettorali prima in Molise poi in Friuli Venezia Giulia, unitamente all’inconcludenza del «dialogo» parlamentare di cui i pentastellati sono stati protagonisti per formare un governo, sembra decretare la fine prematura della leadership del trentenne napoletano.
E’ Di Maio stesso, ieri, aver confermato il proprio stato confusionale passando frettolosamente dalla fase del «dialogo» a quella di richiesta di elezioni a giugno, cosa non solo improbabile ma impossibile: sebbene le norme costituzionali parlino di una finestra tra i 45 e i 70 giorni per sciogliere le Camere, il voto all’estero costringe il presidente della Repubblica a non indire nuove elezioni con meno di 60 giorni di anticipo; ergo, per votare il prossimo 24 giugno – ultima domenica del mese – era necessario che Mattarella decidesse di far tornare gli italiani alle urne entro lo scorso 24 aprile. Come mai quest’errore grossolano e, soprattutto, perché Di Maio rischia di diventare un «leader meteora»? Diciamo subito che lo scenario parlamentare post 4 marzo è frutto di una legge elettorale discutibile, non certo dei grillini.
Ciò non toglie che Di Maio, dopo le elezioni, abbia commesso tre gravi errori; il primo è stato quello di dichiararsene il vincitore, trascurando il fatto che il centrodestra avesse, nel suo insieme, preso assai più voti; più umiltà avrebbe forse evitato i tracolli di Molise e Friuli. Un secondo errore il leader dei 5 stelle lo ha commesso tentando con gli altri partiti un «dialogo» fittizio, che si sostanziava in un invito poco carino: vediamo pure di trovare punti in comune, ma intanto io andrò a Palazzo Chigi e voi verrete ad adorarmi. L’errore più grave è stato però quello di cercare, alla fine, una collaborazione con quel Pd che sempre aveva aborrito: l’astuto Salvini non lo avrebbe fatto. In questo modo Di Maio – prima ancora che Renzi gli sbattesse la porta in faccia – si è candidato ad essere davvero «leader meteora». Uno che, da subito, ha brillato tanto. Forse troppo.