Il documento è atterrato sui tavoli di 23 governi e della Commissione Ue con una lista ben riconoscibile di firmatari: Italia, Cipro, Grecia, Malta e Spagna. Sono i Paesi le cui acque nel Mediterraneo compongono la frontiera Sud dell’Unione Europea, quella che negli ultimi tre anni è stata varcata da tre milioni di persone alla ricerca dell’asilo o di qualche altra forma di protezione.
Il documento è di non più di tre fogli gremiti di punti di merito, tutti di carattere tecnico. Ma il messaggio è politico: non lasciate tutte le responsabilità su di noi, non fate dei Paesi europei del fianco Sud un grande «hotspot» per gestire gli afflussi di stranieri senza documenti. Accanto ai doveri dei territori più esposti agli sbarchi, dev’essere più visibile la «solidarietà» degli altri nel condividere gli oneri nell’emergenza rifugiati.
Per ora, non è così. Né le promesse di «solidarietà» del resto d’Europa sembrano potersi concretizzare presto, benché il tempo stringa: una decisione di fondo per la riscrittura degli accordi europei di Dublino sui rifugiati è prevista al vertice dei capi di Stato e di governo della Ue il 28 e 29 giugno a Bruxelles. Il negoziato dunque è nel vivo in queste settimane anche se a Roma, una delle capitali che dovrebbero esserne protagoniste, un governo nel pieno dei poteri ancora non c’è.
Del resto in tutta questa vicenda la paralisi prodotta in Italia dal voto del 4 marzo non è un dettaglio marginale. Molti responsabili politici nel resto d’Europa riconoscono (in privato) che al successo della Lega e di M5S ha contribuito il fatto che, di fronte agli sbarchi, il governo di Roma sia stato lasciato solo dagli altri. Ma la seconda lezione del 4 marzo per le altre capitali va in direzione opposta: poiché accogliere molti richiedenti asilo fa perdere voti, è meglio delegare il problema ai Paesi di primo approdo.
Il documento presentato nei giorni scorsi dai cinque Paesi più esposti nasce così, da un negoziato fin qui condotto dagli altri per evitare che il minor numero possibile di richiedenti asilo esca dalle frontiere greche o italiane. La proposta oggi in discussione per esempio prevede sì quote di redistribuzione negli altri Paesi, ma in modo restrittivo. Ne sono esclusi i migranti originari da Paesi considerati di solito sicuri come Ghana o Costa d’Avorio e tanti altri (su questi la gestione e il controllo vengono di fatto imposti all’Italia). E solo quando il flusso di nuovi arrivi nell’Unione Europea supererà il 160 per cento dei livelli dell’anno precedente, la Commissione Ue può presentare ai governi una «proposta» per distribuire fino a 200 mila richiedenti asilo fra i Paesi del club; ma la proposta di Bruxelles diventa davvero esecutiva e obbligatoria — a meno che un’ampia maggioranza di governi voti contro — unicamente a condizione che l’afflusso di stranieri superi il 180 per cento dei livelli dell’anno precedente.
In sostanza, le quote funzionano solo in caso di emergenze gravissime e solo se la maggioranza degli altri governi le accetta. Inoltre, né le quote né altri sistemi di solidarietà ai Paesi di primo approdo sono previsti sulle decine di migliaia di persone che, ogni anno, vengono salvate in mare e condotte nei porti del Meridione d’Italia. Sui rifugiati, l’Italia è dunque sempre più sotto pressione. A chiunque la rappresenterà al vertice di fine giugno a Bruxelles spetta una scelta pesante: riequilibrare gli accordi, o rompere con i partner con un veto sulle decisioni finali.