“Ho intervistato 100 stupratori. Vi spiego cosa ho imparato”

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Madhumita Pandey

Madhumita Pandey è una studentessa di criminologia di un’università del Regno Unito e aveva solo 22 anni quando ha fatto visita alla prigione di Tihar, a Nuova Dehli, per incontrare e intervistare gli stupratori condannati in India. Si è approcciata alla conoscenza aspettandosi di incontrare dei mostri, perché solo l’inumanità poteva giustificare i gesti da loro compiuti. Dopo tre anni di interviste e quasi 100 detenuti incontrati, sulla sua tesi di dottorato è emerso un racconto diverso, che lei stessa non si sarebbe aspettata di scrivere.

La spinta per compiere quel percorso di conoscenza la ebbe nel 2013, quando salì alla ribalta delle cronache il caso di una donna conosciuta oggi con il nome di “Nirbhaya”, senza paura. Si trattava di una giovane studentessa di medicina violentata in India mentre stava tornando a casa, dopo aver visto un film al cinema con un amico. Nirbhaya ha portato migliaia di indiani sulle strade per protestare contro la cultura della violenza nei confronti delle donne diffusa nel suo paese, chiedendo che il governo intervenisse per arginare un fenomeno che, solo nel 2015, ha portato quasi 35mila a denunciare uno stupro.

Da questi fatti, la studentessa indiana Madhumita si è sentita colpita in prima persona, in quanto giovane donna. “Tutti pensavano la stessa cosa”, ha dichiarato al Washington Post, “Perché questi uomini fanno quello che fanno? Pensiamo a loro come a dei mostri, perché nessun essere umano potrebbe fare una cosa simile. Ma cosa spinge questi uomini ad avere determinati comportamenti? Quali circostanze hanno dato vita a casi del genere? Il modo migliore per rispondere era indagare direttamente alla fonte”. Per rispondere alle sue domande trascorse diverse settimane a parlare con gli stupratori, detenuti nella prigione di Tihar di Dehli. Si trovò di fronte uomini con una scarsa istruzione e in rari casi i mostri che si sarebbe aspettata di incontrare: “Durante la ricerca mi sono convinta che molti di loro non sono mostri. Quando parli con questi uomini ti rendi conto che non c’è nulla di straordinario in loro, sono anzi estremamente ordinari. Quello che hanno fatto è causa di una mancata educazione, di un modo di pensare instillato nelle loro menti”.
La cultura della violenza, per Mihamida, si lega alla cultura della subordinazione della donna, costretta in ruoli tradizionali, a lasciare il passo alla volontà degli uomini di casa. No, non c’è niente di straordinario negli stupratori che ha intervistato, per lei sono il prodotto di un modo di pensare instillato nelle loro menti sin da piccoli, emerso nel peggiore dei modi. Ma è proprio quell’ordinarietà che dovrebbe allarmare, che dovrebbe far sorgere dei punti di domanda, che dovrebbe far paura più che se si avesse a che fare davvero con dei mostri.

“Solo tre o quattro di loro hanno affermato di essersi pentiti, gli altri trovavano delle giustificazioni o incolpavano la vittima”. In particolare, Pandey ricorda una discussione avuta con un 49enne, che espresso rimorso per aver violentato una bambina di 5 anni. Le ha detto che si sentiva male per ciò che aveva fatto, perché non essendo più vergine nessuno l’avrebbe sposata. Poi aggiunse: “L’accetterò io. La sposerò una volta uscito di prigione”.

“Gli uomini imparano ad avere un’idea falsata della mascolinità e le donne a sottomettersi”, ha concluso la ragazza, “Tutti pensano ci sia qualcosa di particolare negli stupratori, qualcosa che si nasconde dentro di loro e appartiene solo a loro. Ma in realtà fanno parte della società, non si tratta di alieni catapultati nel nostro mondo. Dopo aver parlato con questi, la cosa più sconvolgente è che sono in grado di farti dispiacere per loro. Come donna non avrei mai immaginato di provare delle sensazioni simili. Nella mia esperienza ho capito che molti non si rendono conto di quello che hanno fatto, non capiscono cosa sia il consenso. Allora ti chiedi: vale solo per questi uomini o per la maggioranza di loro?”. HuffPost