di Marco Damilano
C’è mancato poco, a un certo punto, che la direzione del Pd si trasformasse in un processo al Segretario. Con il governatore della Puglia Michele Emiliano pronto a indossare di nuovo la toga di pubblico ministero per la sua requisitoria: «Matteo, sei apparso lontano, lontanissimo dalle persone, più lontano di quanto appaia il partito», addirittura. E chissà se la direzione del Pd del 13 febbraio 2017 sarà ricordata come la prima vera discussione della segreteria di Matteo Renzi, o al contrario come l’ultima. Perché «si chiude un ciclo», l’ha ammesso anche il leader. Quello dell’unanimismo attorno al Capo, degli applausi e delle maggioranze bulgare. E, soprattutto, del Pd partito della vocazione maggioritaria, predestinato al governo, con il segretario candidato premier di diritto a norma di Statuto. Stagione conclusa: da oggi non c’è più quel Pd. In attesa di capire, domani, se ci sarà ancora il Pd.
Più andavano avanti gli interventi, Bersani, Emiliano, Enrico Rossi, Roberto Speranza, più il segretario in maglione blu sembrava afflosciarsi, stritolato tra due prospettive ugualmente deprimenti. La scissione minacciata dalle minoranze e dal presidente della Puglia in caso di primarie istantanee. E il caminetto, il balletto dei notabili, la frenata dei capicorrente, la palude, lo scirocco appiccicoso e immobile: il renzismo era nato per spazzarlo via, un vento impetuoso di aria nuova. E oggi è finito attaccato da un doppio fronte. Da parte di chi lo ha accusato di aver smarrito quell’ispirazione. E da chi, al contrario, aveva sperato di addomesticarlo, di riportarlo nell’alveo della politica di partito.
Mancano, per tutto il dibattito, gli interventi dei renziani. Rimasti, come dice Gianni Cuperlo, come «cetacei senza capobranco». Nessuno se non per forma difende Renzi, il renzismo, il governo dei mille giorni, il futuro smarrito. Perfino Vincenzo De Luca scandisce che «nel Sud il Pd è un corpo estraneo». Il paradosso di un leader che gode di una maggioranza schiacciante e che vincerebbe facile il congresso, ma che resta solitario, senza dirigenti in grado di sostenerne le ragioni, battagliare in una sede che non sia il classico tweet di rimbalzo della linea del Capo. Alle 19 Renzi replica e tocca ancora una volta a lui tirare le conclusioni e rimandare tutto all’assemblea del partito di fine settimana, compresa la data delle elezioni e il destino del governo Gentiloni. Si va al congresso, l’unica certezza. Il resto è in una nebulosa. L’Espresso