C’è stato un tempo in cui si poteva fare il Natale cinico, schizzinoso, il Natale laico senza regali (“Farò una donazione”) o anche il Natale cafone, il Natale alla Boldi e De Sica, il Natale a Sharm per gli impiegati e a Miami per chi stava un po’ più su, e il Natale era posizionamento politico – festa del consumismo nelle critiche della sinistra; festa dei valori traditi nelle invettive della destra – ma adesso quel tempo è passato.
Il Natale dei tempi difficili si è portato via quel tipo di atteggiamento, di emozione, di dibattito. Persino Matteo Salvini ha messo la sordina alla polemica che ci accompagnava da anni sui presepi a scuola e alla denuncia di chi non li faceva. I cinepanettoni al cinema arrancano più del solito. L’invettiva pauperista contro la corsa al regalo, all’addobbo, non fa più presa: anzi, a Roma la città si arrabbia perché l’albero di Piazza Navona è scarno, e chissenefrega se è costato poco. Lo si vuole bello, luminoso, e si rivorrebbero pure le bancarelle a Piazza Navona, così a lungo maledette in nome della trasparenza dei bandi.
Spopola, su internet, un video di Casa Surace dove alcuni studenti fuorisede dicono (per scherzo) ai genitori che a Natale non tornano a casa. E anche dal successo di quei due minuti, si capisce come stanno le cose: dopo tanti bla-bla sulla riscoperta del Natale “autentico”, è la crisi a riconciliarci con la festa e a restituirle una dimensione meno isterica, più maneggiabile e intima.
Il Natale cinico non si può più fare per tanti motivi. La paura, innanzitutto: il terrorismo, il terremoto. Così questo Natale ha un segno anche “politico”, e lo vediamo nelle imprevedibili dichiarazioni di Silvio Berlusconi favore del reddito di cittadinanza. La destra, che per vent’anni aveva scritto sulle sue bandiere «meno tasse» comincia a riposizionarsi sul terreno del «più lavoro»
Il Natale cinico non si può più fare per tanti motivi. La paura, innanzitutto: il terrorismo, il terremoto, il senso di angoscia che ci trasmettono le foto delle vittime italiane di Berlino o di Nizza, dei senzatetto di Amatrice e Accumuli, l’idea che si possa perdere tutto in un istante, per niente. L’improvviso pessimismo che si è mangiato l’idea di un progresso, anche economico, costante e irreversibile. Ma anche, e soprattutto, un fatto “pratico” che ha incrociato il dibattito politico nelle ultime settimane: siamo tornati a essere un Paese di emigranti, e un Paese di emigranti ha un atteggiamento diverso sulle feste.
L’ultimo rapporto di Migrantes piazza a quota 4 milioni e 800mila gli italiani che risultano trasferiti all’estero, ed è un numero sottostimato: molti non si iscrivono all’Aire e quindi non vengono censiti. Ci sono comuni come Licata dove gli emigrati sono il 42 per cento dei residenti. Il 10 per cento dei romani ormai vive oltreconfine, e la classifica degli espatri più recenti è guidata da città che siamo abituati a considerare prospere, Milano e Torino. Si ha un bel dire: è la modernità, è la vita, è una cosa diversa dalla disperata emigrazione novecentesca.
Magari è pure vero, e però a Natale tutti vorrebbero stare a casa. E non tutti possono. E così il Natale schizzinoso non si fa più, non è nel mood delle famiglie, e l’elitarismo di chi dice “uffa, a Natale me ne scappo a Londra” che una volta suscitava invidia adesso provoca irritazione, e anche rabbia, tantoché il film di De Laurentis si ferma al botteghino dove invece ottiene insperati successi Captain Fantastic, storia famigliare eccentrica sull’educazione dei ragazzi.
Così questo Natale ha un segno anche “politico”, e lo vediamo nelle imprevedibili dichiarazioni di Silvio Berlusconi favore del reddito di cittadinanza, nella singolare attenzione di Salvini per i temi dell’occupazione anziché per i cori religiosi negli asili: persino la destra, che per vent’anni aveva scritto sulle sue bandiere «meno tasse» comincia a riposizionarsi sul terreno del «più lavoro» perchè tutto il resto, si scopre all’improvviso, è sovrastruttura, decorazione, e gli italiani non ne possono più.
Ci sono voluti molti anni di pervicace negazione della realtà. C’è voluto l’indifendibile saldo del Jobs act, Trump, la Brexit, le vittorie Cinque Stelle, il referendum, e negli ultimi giorni Mediaset e Mps, insomma: ci sono voluti colpi alla porta sempre più imperativi e violenti, ma alla fine la realtà si è imposta alla narrazione del “Paese bellissimo” e dei “ristoranti pieni”. Magari sarà un buon Natale davvero. Magari questo Natale dei tempi difficili segnerà, quantomeno, una presa d’atto dei sentimenti del Paese. Linkiesta