Caro direttore,
la chiamano «eterogenesi dei fini», cioè lo strano meccanismo per cui – secondo il dizionario di filosofia Treccani – «le azioni umane possono produrre fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione».
Le cronache della politica italiana sono ricche di questi paradossi: Bettino Craxi, ad esempio, non andò ad elezioni anticipate nel 1991 con l’obiettivo, dopo la caduta del muro di Berlino, di inglobare gli ex Pci nel Psi, ma, invece, in quel lasso di tempo scoppiò Tangentopoli e i socialisti scomparvero dallo scenario politico, mentre gli ex comunisti andarono al governo; o ancora, Giorgio Napolitano ebbe la geniale idea, si fa per dire, di non aprire la strada alle elezioni anticipate nel 2011 e di dare vita al governo Monti per combattere l’antipolitica, col risultato che i grillini passarono in un anno – secondo i sondaggi – dall’8 al 25%. Come si vede «gli astuti piani» che poi si tramutano in catastrofi per i loro autori, nascono sempre dall’allergia che l’establishment politico italiano nutre verso le urne, si tratti di elezioni politiche o referendum.
Il referendum sulla riforma Costituzionale del governo Renzi non fa eccezione. Anzi. Qui «l’eterogenesi dei fini» coinvolge i piani di un vasta platea di persone, tutte intente a perseguire degli obiettivi ben precisi, ignare del rischio che i risultati potrebbero essere ben altri, se non addirittura opposti, rispetto ai loro desideri. Prendiamo il ricorso dell’ex presidente della Consulta, Valerio Onida, e della costituzionalista Barbara Randazzo, contro il quesito referendario, su cui il Tribunale civile di Milano si è riservato di decidere. La coppia di costituzionalisti, legati da affetto e stima reciproca, è decisamente schierata sul No alla riforma Renzi. Le ragioni che sono alla base del ricorso non fanno una piega: il quesito ammesso dalla Corte di cassazione ai primi del mese di agosto, infatti, non sta né in cielo, né in terra e infrange tutti i crismi costituzionali. «Se ci aggiungiamo poi il fatto – ironizza l’ex ministro della difesa, Mario Mauro – che una settimana fa tutti i presidenti dell’Alta corte hanno ricevuto dal governo la proroga per andare in pensione un anno dopo, viene quasi da ridere». Ma a parte ciò, l’iniziativa dei due esponenti del fronte del No rischia di trasformarsi in una ciambella di salvataggio per Renzi e lo schieramento del Sì, in grandi ambasce nei sondaggi. «Quel genio di Onida – osserva ruvido Maurizio Gasparri – rischia di fare la frittata e, visto che è schierato per il No, mi appare anche un po’ masochista». Il motivo è semplice: se il Tribunale di Milano decidesse di rinviare alla Consulta la decisione sul ricorso Onida, il referendum potrebbe essere posticipato al prossimo anno; o, ancora, il quesito referendario spacchettato in più quesiti. Ipotesi estremamente nefaste per gli oppositori alla riforma Renzi e che, invece, renderebbero felice l’establishment istituzionale del Paese.
Eh già, perché gli inquilini dei piani alti del Palazzo (presidenti ed ex presidenti) farebbero i salti di gioia se il fatidico giudizio di Dio del 4 dicembre fosse rinviato. O se il referendum fosse declinato in tante domande, evitando il fatidico Sì o No, che presuppone un vincitore e uno sconfitto. L’establishment istituzionale, per sua natura, preferisce il grigio, al bianco o al nero. Ecco perché è molto probabile che l’attuale inquilino del Colle, Sergio Mattarella, sogni, in cuor suo, un rinvio, magari per rendere meno drammatica la campagna referendaria. Certo non si espone visto che il presidente non ha il carattere «interventista» del suo predecessore. Ma che questa sia l’aria che tira al Quirinale non ci sono dubbi: lo dimostra il fatto che Pierluigi Castagnetti, esponente del Pd e grande amico del capo dello Stato, abbia teorizzato il rinvio con una motivazione, che pure ha le sue ragioni, cioè la difficoltà di tenere il referendum nelle aree terremotate. Un’opinione che è condivisa da tutto l’establishment istituzionale, basta guardare alle mosse del presidente emerito: Giorgio Napolitano, infatti, da una decina di giorni si è eclissato dalla campagna referendaria ed è tornato a cimentarsi nelle alchimie di Palazzo. Segue, soprattutto, con attenzione le vicende del ricorso di Onida e le sue conseguenze. «I due ora sono in buoni rapporti», confida Paolo Naccarato, grande conoscitore dei corridoi della politica più nascosti. E qualcuno comincia a pensare che l’iniziativa di Onida, al di là delle intenzioni del suo autore, sia diventata uno strumento dei disegni dell’ex capo dello Stato. «Il sospetto ce l’ho – osserva Mario Mauro, calato nei panni della sentinella del fronte del No -. Se conosco Onida si è mosso avendo già la sentenza del tribunale in mano. E, diciamocelo francamente, il rinvio del referendum o lo spacchettamento dei quesiti vanno sulla linea di Napolitano, che punta a disinnescare gli effetti politici del referendum».
Appunto, la strategia dell’establishment istituzionale è quella di disinnescare gli effetti politici dell’appuntamento del 4 dicembre, in sintesi di trovare una via d’uscita al bambinone Renzi, che con il suo vizio di rilanciare sempre, si è ficcato in un cul de sac. Ma anche qui l’eterogenesi dei fini potrebbe provocare conseguenze ben più disastrose per il Paese che non il semplice svolgimento del referendum. Il premier, che sicuramente ha più fiuto nel comprendere gli umori dell’opinione pubblica rispetto agli altri inquilini del Palazzo, ha già rifiutato l’ipotesi di un rinvio. Almeno a parole. Non bisogna essere degli esperti di psicologia delle masse, infatti, per sapere che non puoi privare un Paese a cui hai imposto un premier non eletto, una modifica della Costituzione che non prevede l’elezione dei senatori e un Parlamento giudicato dalla Consulta incostituzionale, di dire la sua su una riforma di cui si parla da due anni e su cui si sta svolgendo da sei mesi una campagna referendaria estremamente dura.
Sarebbe uno scippo dalle conseguenze imprevedibili. Una forzatura, più o meno camuffata, che il governo e la sua maggioranza pagherebbero caro alle prossime elezioni politiche: per salvaguardarsi nel presente, rischiamo di ipotecare il futuro. «Questi sono pazzi – sbotta Renato Brunetta -: se compiono un errore del genere regalano il Paese ai populisti». «È gente che continua a giocare con il fuoco – sono le parole che qualcuno ha sentito uscire dalla bocca di Massimo D’Alema -. Porteranno i grillini al 51%». Più che affermazioni polemiche, sono analisi realistiche, sensate. Anche perché questo Paese, che ne ha viste di tutti i colori, non si merita il déjà vu di vedere affidato il proprio futuro politico nelle mani del solito tribunale di Milano.