di Martino Cervo e Marco Gorra
Cribbio, ottanta. Sedici lustri il 29 settembre: seduti in quel caffè chiamato Italia si può pensare a Silvio Berlusconi senza accanimento e senza coccodrilli anticipati. L’uomo è vivo e lotta. E nella cifra tonda dell’età il lascito più grande non è quello di una rivoluzione liberale, non nella pur clamorosa innovazione politica contro i «parrucconi», né nello «spirito di Pratica di Mare» e nemmeno nel «meno tasse per tutti». Silvio Berlusconi ha dato a questo paese anzitutto un vitalismo cazzaro, un racconto disincantato di sé e del mondo, un mix inestricabile di biografia e discorso pubblico, di manifesti e di frasi, di facce e di gesti, che rappresentano la vera portata del tanto vituperato berlusconismo.
Prima di parlare dei nemici, degli altri, dei comunisti, dei mozzorecchi, dei coglioni eccetera, la narrazione dell’uomo è tutta positiva, e precede la famosa discesa in campo. Come da ormai leggendario opuscolo, si tratta di Una storia italiana fatta di ottimismo, di consumi, di un edonismo brianzolo che, semmai, determina quanto venne dopo, dal famoso Euromercato di Casalecchio di Reno (novembre 1993) in cui si schierò per Fini. In quella rivoluzione linguistico-antropologica c’era il «mi consenta», il «bel giuoco» con cui il fu suo Milan (cioè il «cloueb più titolato al mondo») spadroneggiava. Tanto che, come avrebbe detto in udienza da Giovanni Paolo II, Wojtyla somigliava ai rossoneri, perché come la squadra «porta il Verbo in trasferta». E Giorgio Gaber avrebbe chiamato il polacco “il Berlusconi della chiesa”. C’erano i pretori cattivi che «oscuravano i Puffi», l’amico Craxi e la Publitalia lanciata come un esercito col «sole in tasca», a cambiare per sempre pubblicità e consumi.
«L’Italia è il paese che amo» viene dopo tutto questo, e a causa di tutto questo. Berlusconi è quello che dice ciò che penseresti, ma non sai se si può finché qualcuno non lo dice per te, a cominciare dal genialmente banale Forza Italia. Uno sdoganatore seriale di buon senso, demagogia, piacionismo, qualunquismo, intelligenza, senso degli affari, simpatia, difesa dell’impresa, della persona e del ganassa. Dei soldi, del benessere. Erige una specie di Dc con la minigonna che anticipa di 20 anni il grillismo, perché nasce contro i «professionisti del teatrino della politica» che non hanno «mai lavorato in vita loro». Eppure, nel famosissimo discorso che l’avrebbe proiettato in una stagione a Palazzo Chigi, Berlusconi dice già che quelli, gli altri, «non credono più in niente. Vorrebbero trasformare il Paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna».
La rivoluzione, prima che liberale, è linguistica, di canone, di Weltanschauung senza testi sacri di riferimento se non la propria carriera, i propri successi, la propria famiglia, «sulla testa dei figli» della quale era pronto a giurare. Perché la politica berlusconiana ha paletti di una semplicità così impressionante da suonare inedita: il «nuovo miracolo italiano» da costruire tutti assieme («e siamo tantissimi»), contro Occhetto e i suoi, «legati a doppio filo a un passato fallimentare», pronti a portare «miseria, terrore e morte» come i loro padri politici che «bollivano i bambini». La politica estera si infila nel perimetro, sano e politicamente non correttissimo, per cui «l’Occidente deve avere la consapevolezza della superiorità della sua civiltà», e scusate se è poco. «Sto con l’America prima di sapere da che parte stia»; vuole «Israele nella Ue» ma mostra un volto proteiforme e attento agli affari anche con i paesi musulmani affidabili (Gheddafi e Mubarak, nipoti a parte, sono rapporti privilegiati che rimpiangiamo). Quando Arafat gli chiede un aiuto per realizzare una tv nella Striscia di Gaza, Berlusconi dice: «Gli ho proposto Striscia la Notizia». E dire che «Misterobaaamaaaaa», quello «abbronzato» era ancora là da venire. Il resto, compresa il rapporto con l’«amico Vladimir» (Putin), è roba di cui a ben vedere ci sarebbe oggi un certo bisogno. L’intuizione assoluta su Martin Schulz e certa attitudine tedesca a comandare in casa d’altri è passata alla storia: se il «kapò», il «turista della democrazia» (entrambi scanditi in mondovisione) e la «culona inchiavabile» (non detto, ma verosimile al punto di diventare per mesi un serissimo argomento di discussione a livello domestico ed internazionale) sono ormai categorie dello spirito, lo dobbiamo a lui.
Il lascito nella politica interna è un’eredità di approccio, a-ideologica, figlia anzitutto dell’offerta non di un’idea ma di sé, l’«unto del Signore» che rifiuta il paragone con Gesù Cristo perché, a differenza Sua, «mio papà era uno qualunque». Ed ecco «l’evasione moralmente giustificabile», le promesse, dal «milione di posti di lavoro» all’abolizione dell’Ici («sì, avete capito bene»), fino alla necessità del 51% dei voti per cambiare le regole, visto che da premier non può nemmeno «licenziare un ministro». La giustizia è la grande incompiuta delle stagioni di governo per colpa del «potere di veto dei piccoli partiti», quelli «preoccupati del loro particolare». Perché, nella cosmogonia berlusconiana, certi giudici sono «matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana» (come dice nella memorabile intervista a Nick Farrell e a un certo Boris Johnson); peggio, un «cancro». E qui diventa, negli anni, completamente impossibile staccare i casini giudiziari di Berlusconi dalla linea politica del partito, in un’eterna gara a chi abbia cominciato. Da antologia la sferzata in Confindustria al «Signor Della Valle» agli imprenditori «con gli scheletri nell’armadio che si mettono sotto il mantello di Magistratura democratica».
La magistratura apre il capitolo dei nemici della narrazione del Cav. Personaggi, quelli di una «sinistra in cui sono sempre incazzati» resi caricatura, punchingball del dileggio: da Fabio Mussi «simpaticissimo: metà Hitler metà salumiere» al Di Pietro che «mi fa orrore», al Prodi «utile idiota», all’ex alleato Bossi «sfasciacarrozze», al trivio puro su Rosa Russo Jervolino («anche l’orecchio vuole la sua parte»), Rosy Bindi («più bella che intelligente») e Mercedes Bresso («sempre arrabbiata perché al mattino è costretta a vedersi allo specchio»). In storia, Berlusconi è un rullo compressore approssimativo ma efficacissimo: la gaffe micidiale sui fratelli Cervi massacrati dai fascisti («Sarei felicissimo di conoscere il padre», morto oltre 20 anni prima) apre a un mondo più o meno consapevole in cui la Resistenza non è più un’agiografia intoccabile. In cui – appunto – «Mussolini mandava gli oppositori in vacanza al confino», e tanti saluti pure a Ventotene, a Spinelli e compari. Azzerato anche l’aplomb istituzionale: alla prima elezione di Giorgio Napolitano invita i suoi a stare «composti, come a un funerale». Non c’è più confine tra il privato e il politico: Berlusconi è sotto pelle a tutto e a tutti. La tv è il suo campo («Santoro, si contenga», e quello mica si contiene. No, anzi. Intuita la redditività della cosa, si circonda di adeguata compagnia e si mette a fare un «uso criminoso della tv pubblica») e ogni intervento è uno show, dal Processo a Porta a Porta fino all’Annunziata (dove si alza «e-me-ne-va-do» inaugurando un genere).
Sul costante predellino della vita italica, il Cav spiazza perché non ha teoria: è tutto pratica istintiva. L’anarca etico si scopre efficace nel difendere uno straccio di buon senso cristiano con la guerra a Napolitano su Eluana Englaro in quel suo definirla «persona viva» più forte di mille prediche. Va detto che, anche qui, l’uomo è pioniere. Al momento dello scontro istituzionale di cui sopra, il nostro vanta un’uscita dal coma (Andrea, giovane tifoso milanista strappato all’agonia da un messaggio audio registrato in tandem da Berlusconi e Franco Baresi) più un numero imprecisato di intercessioni, guarigioni e varia taumaturgia. E dove non riesce con gli altri, provvede con se stesso: preso a sassate in faccia, risponderà con quel gioiello kitsch di morale laica che è «L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio».
L’anima di presidente-allenatore mente sul calciomercato («Nesta? Se pò no», e invece poi yes, he can), tuona contro Zoff «indegno» nel non ingabbiare Zidane. Se c’è un aneddoto definitivo che sintetizzi Berlusconi, l’ha raccontato Libero: di rientro dall’ennesimo comizio nella primavera 2006, stufo e insonne, finisce nello zapping notturno sulla réclame di una linea hot. Non ci pensa due volte, e – per tastare il polso – fa il numero: «Scusi, signorina, lei per chi vota?».
Gli anni della crisi lo inchiodano a un tentativo di ottimismo (i «ristoranti sempre pieni») e alle disgrazie del «bunga-bunga», su cui saprà pure ridere a colpi di «cene eleganti» e «gare di burlesque». Poi il crollo, il triste contraltare del «Paese di merda» sussurrato in un’intercettazione tra le tante finite sui giornali. Il Silvio Berlusconi detronizzato, acciaccato e operato al cuore tenta il rilancio con Stefano Parisi scommettendo sul «quid» che ad altri mancò. L’ultima (?) battaglia potrebbe essere sull’euro, che tra i primi definì «moneta straniera» ipotizzandone l’uscita dell’Italia. Cosa che, a detta di Bini Smaghi, gli costò la poltrona nel 2011. Del resto, se «la vita umana arriverà a 120 anni» e lui è «tecnicamente immortale», perché mai non potrebbe combatterla? Libero