di Redazione
300 ore de I Simpson, ovvero 500 episodi trasmessi a ciclo continuo su un apposito canale per tredici giorni. Per molti sarà soltanto un sogno e invece è l’idea concretissima della Fox, il network americano che trasmette la serie a cartoni animati più famosa del mondo – e più dissacrante, che non è necessariamente un male – e che annunciato nei giorni scorsi di voler celebrare il successo della famiglia gialla con la maratona televisiva più lunga di sempre. I numeri in effetti sono impressionanti, e ancor di più lo è il business che c’è dietro: non pensava forse a questo Matt Groening, fumettista già noto per le strisce di Life is Hell, quando nel 1989 andò a proporre ai produttori un’idea di famiglia americana stereotipata che catturasse tutti i cliché della società USA e li riunisse sotto il tetto di casa Simpson. Invece funzionò e adesso eccoci qua: la maratona incombe e dal 24 novembre al 6 dicembre terrà incollati al teleschermo, c’è da scommetterlo, diversi milioni di fan anglofoni. Perché l’idea riguarda solo la patria dei Simpson, e bisognerà essere madrelingua per apprezzare pienamente le storie e i protagonisti: nulla del genere è momentaneamente al vaglio in Italia, dove pure la famiglia gialla ha avuto sempre buon successo sulle reti Mediaset, che la ospitano sin dalla messa in onda italiana nel 1991. Ma perché questo successo planetario che dopo quasi trent’anni non accenna a diminuire? (A svalutarsi forse sì, ma vent’anni sono vent’anni e quando esce la nuova serie, diciamolo, siamo tutti lì ad uscire in tempo da lavoro per guardarla, se prima non ce la siamo spoilerata su internet). Perché il meccanismo proposto da Groening alla fine degli anni Ottanta resta valido anche verso la fine dei Duemiladieci?
Il segreto è nel dettaglio. Troppo spesso le serie animate ci hanno abituato ad un mondo favolistico dove esseri umani si confrontano con interlocutori vari restituendo una storia magari avvincente ma difficilmente credibile. I Simpson ragionano in maniera inversa: nonostante la loro struttura fisica e soprattutto il colore peculiare li renda difficilmente umani (c’è chi ha proposto che sarebbero delle mutazione genetiche sorte nei pressi della centrale nucleare di Springfield: ma la cosa non regge), il mondo in cui Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie si muovono quello sì è assolutamente credibile e riproduce nel dettaglio tutti gli interstizi della società umana, dal lavoro al sesso alla politica alle quotidiane nevrosi che attanagliano il cittadino medio. I Simpson sono cioè essi stessi un Mc Guffin, ovvero un meccanismo narrativo tipico di certo cinema – il termine è di Alfred Hitchcock – nel quale un dettaglio diventa il mezzo attraverso cui reggere l’intera struttura narrativa, attraverso il quale cioè perpetuare la storia. Il giallo dei personaggi e il loro avere quattro dita e strani capelli è quindi il collettore primo per l’interesse del pubblico per le loro vicende: a differenza de I Griffin, che non potendo riprodurre questa struttura – limitandosi a copiarne altri aspetti – sono costretti ad esacerbare la satira sfiorando la volgarità e talvolta raggiungendola pienamente, e senza tuttavia riuscire ad ottenere lo stesso effetto che “educatamente” (le virgolette sono d’obbligo) la famiglia Simpson suscita nel pubblico. Ecco perché i gialli continuano a mietere successi, rimanendo padroni pressoché incontrastati di questo tipo di serie animata: non temono la concorrenza nemmeno di South Park, un altro campione dell’humor nero, e ciò a partire dall’espediente narrativo che abbiamo descritto e che gli sceneggiatori, c’è da dire, hanno saputo gestire con sapienza anche dopo che il ruolo di Groening si ridusse a quello di consulente creativo.
Mc Guffin da cui partire, dunque, e poi società descritta nei minimi dettagli, anche, lo dicevamo, per quanto riguarda la politica. Come già accaduto in passato la serie non manca di seguire le elezioni americane e nell’ultima stagione ha dedicato molto spazio alla corsa alla Casa Bianca ed in particolare – nessuno sarà sorpreso – al pittoresco personaggio candidato per il partito conservatore, ovvero Donald Trump. I grafici hanno prodotto di lui una caricatura pressoché perfetta, incarnandone sia le caratteristiche fisiche che quelle psicologiche: per le prime basterà dire che in un episodio Homer sogna di essere risucchiato tra i suoi capelli, che si scoprono prensili e lo trascinano in un mondo sottocutaneo fatto di forfora ed altre meraviglie; per le seconde, proprio sotto il toupet, Homer troverà un cartello nel quale la data della candidatura di Trump si aggiorna automaticamente di quadriennio in quadriennio, ogni volta che gli va storta e non riesce a beccare la presidenza degli Stati Uniti. Il riferimento è evidentemente all’esperimento del 2012, quando il miliardario si candidò da indipendente per poi confluire in favore di Mitt Romney. Certo stavolta le possibilità dell’ex conduttore di The Apprentice sembrano assai più concrete e infatti anche I Simpson raccontano la nevrosi di mezzo mondo connessa a questa opportunità: non per nulla in casa c’è una fervente democratica come Lisa, che tuttavia dovrebbe ben conoscere i collegamenti di Hillary con certo establishment americano e mondiale per nulla vicino ai sentimenti di pacifismo e tolleranza espressi dalla figlia di mezzo di Homer e Marge; ci sono anche Homer e Bart, che perlomeno ad occhio sembrerebbero preferire alle chiacchiere sciagurate l’azionismo sincero del miliardario; di Marge sappiamo come abbia difficoltà a prendere posizione e dunque anche stavolta dovremo accontentarci di uno dei suoi famosi “mmmh”; la piccola Maggie infine è decisamente repubblicana in quanto appassionatissima di armi, nonostante porti ancora il ciuccio e non sia allungata di un centimetro negli ultimi trent’anni.
La ricostruzione è tutta nostra e ciascuno potrebbe pensarla diversamente, quanto a collocazione politica dei Simpson e ai rapporti dei medesimi con i due candidati alla Casa Bianca; interessava soltanto sottolineare come l’approccio ai temi politici, e a tutti gli altri, sia assolutamente realistico e di conseguenza appassionante per quanti si sintonizzeranno con la maratona più lunga della storia della televisione il 24 novembre. Molte altre cose ci sarebbero da dire su un fenomeno mediatico del genere, studiato del resto anche a livello accademico e non di rado copiato – lo abbiamo detto – con risultati in genere poco esaltanti. Il genio è consistito proprio in questo, in un doppio livello interconnesso che dalla semplice peculiarità cromatica conduce all’eccezionalità dei contenuti e alla loro riproducibilità su scala mondiale – cosa ancora più interessante, in quanto la serie parla solo ed esclusivamente degli USA: ma la società occidentale non è essa stessa tutta una scopiazzatura di quella yankee? E’ così, il successo di tre decenni continuati è lì a testimoniarlo. E va bene così, perché l’intelligenza creativa vince su tutto e se non sia associa a troppo cattivo gusto diventa davvero una piccola contemporanea opera d’arte. Gialla e con quattro dita.