L’uomo dai calzini variopinti vota Hillary, lo si metta a verbale. George Bush senior, Presidente degli Stati Uniti dal 1989 al 1993 – non rieletto per il secondo mandato: giocava contro Bill Clinton, è vero, ma in America un Presidente deve proprio farla grossa per non essere riconfermato –, il quale per l’appunto ha l’abitudine di indossare pedalini multicolore preferibilmente sgargianti, questo popò di petroliere-statista padre di altre due glorie quali George W. E Jeb, giunto alla veneranda età di novantadue anni e costretto in sedia a rotelle, ma sempre presente a inaugurazioni e congressi, e fino a poco tempo fa ansioso di gettarsi col paracadute – lo ha fatto due volte –, costui insomma ha confidato a una nipote di Jack Kennedy, Kathlenn Hartington, che alle prossime elezioni presidenziali voterà per la candidata del Partito Democratico preferendola allo scombiccherato vincitore delle primarie repubblicane, ovvero il discreto Donald Trump.
Ecco, almeno questo se non la fede repubblicana avrebbe dovuto accomunare l’ex presidente e l’aspirante futuro tale: l’allergia a tutto ciò che non sia pacchiano, esagerato, contrario alla modestia. L’uno è giustificabile per raggiunti limiti d’età, l’altro – che non è un ragazzino – ha fatto di questa sua vanità la punta di diamante della macchina elettorale e se la gioca alla pari con l’educata ex-first lady: insomma Bush senior e Trump avrebbero potuto amarsi, se non fossero intervenute contingenze diverse. Che attengono soprattutto al rapporto con il partito: Bush ne fu un esponente autorevole prima di esserne estromesso, Trump l’ha scalato contro ogni previsione dimostrandosi l’ennesimo outsider sulla strada degli onesti rappresentanti del popolo inquadrati nella gerarchia repubblicana. Già una volta l’uomo dai calzini variopinti fu fregato da uno di questi, si chiamava Ross Perrot e guarda caso era un miliardario: candidandosi da indipendente nel 1992, tolse a Bush abbastanza voti da buttarlo a mare con tutta la baracca portando Clinton alla Casa Bianca. Ventiquattro anni dopo Trump avrebbe fatto la stessa cosa – durante le primarie repubblicane – con il figlio minore di George senior, Jeb, candidato poi ritirato per manifesta superiorità del rivale. Un’antipatia intergenerazionale per un tipo umano, dunque, che rende probabile la “confessione” del vecchio Bush alla nipotina di JFK.
La cosa, per quanto credibile e del resto già nota – che i Bush sostenessero la Clinton non era un mistero per nessuno, almeno in forma implicita – non ha mancato di suscitare scandalo sia per la latrice della notizia, una Kennedy, sia per il mezzo utilizzato per diffonderla, Facebook. Annota il Corriere della Sera: «Non è un mistero che la dinastia Bush, a cominciare dal padre, abbia preso le distanze dal candidato del proprio partito Repubblicano, Donald Trump. Un’aperta dichiarazione di voto per la candidata democratica sarebbe però inopportuna. Il portavoce della famiglia si è infatti affrettato a precisare: “Il voto del Presidente tra 50 giorni sarà quello di un privato cittadino: un voto privato, dunque. Nel mentre, non rilascia commenti sulla gara presidenziale”». Non rilascia commenti, d’accordo, ma occhio alle confidenze che un ultranovantenne può fare, anche senza accorgersene, riportate poi sul social più pettegolo di tutti i tempi. Voce dal sen fuggita, come sempre, più richiamar non vale: se la si affida a Facebook, poi, e ad una persona nota per ascendenze familiari presidenziali, la frittata è bella che fatta e il portavoce della famiglia ha un bel da fare a tentare di riconvertirla in uova.
Tutto ciò si iscrive in un discorso più generale, che attiene al rapporto tra i politici e la tecnologia. Non sfuggirà come proprio la Clinton abbia rischiato di arenare la sua campagna elettorale sullo scandalo delle mail, e come i politici di mezzo mondo abbiano tremato e tremino di fronte ai casi di Wikileaks e Panama Papers, entrambi di matrice squisitamente tecno-virtuale. La rete ha il difetto della memoria: nulla di ciò che mandiamo in questo marasma informatico, dalla chat con gli amici alle mail di lavoro alla soddisfazione dei nostri pruriti – a proposito, si legge che Putin abbia bloccato i siti porno in Russia. Sarà vero? Nel caso complimenti –, nulla di tutto ciò insomma può essere rimosso dal virtuale, a differenza di ciò che avviene nella realtà, ove la memoria ha il pregio di essere limitata consentendo a chiunque, presto o tardi, di rimuovere le proprie fonti di imbarazzo e tornare ad una vita tranquilla. Non vogliamo nuovamente citare la giovane che ha scelto di togliersi la vita avendo potuto constatare questa verità: se n’è già scritto troppo ed anche noi, adesso, desideriamo affidare il suo ricordo all’oblio.
Ecco che cos’ha combinato George Bush senior, insomma. La cosa farà discutere e avrà magari qualche conseguenza – per quanto del vecchio, lo abbiamo detto, non è che gli americani abbiano un bellissimo ricordo –, senza essere tuttavia dirimente per gli esiti di una campagna elettorale che si avvia alla conclusione – a novembre, in un giorno favoloso – sciogliendo i dubbi di mezzo mondo su chi debba essere la nuova guida del “mondo libero” (c’è da piangere). Purché da qui a quella data Hillary o Donald non se ne escano con una nuova tegola internettara, dopo quella già pesante delle mail: gli elettori avrebbero diritto ad eleggere un presidente nella realtà e in base ad essa, senza dover andare a scartabellare archivi informatici vari diventando degli hacker di complemento. Loro sostengono giustamente di essere gente solida e concreta, e sarebbe proprio un brutto segno se il massimo rappresentante della “maggiore democrazia del mondo” (altre lacrime) li costringesse a diventare il contrario. Ovvero dei farfalloni con i calzini sgargianti.