La nostra società non sa più cosa significhi “donare”

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di Giuliano Guzzo

Le analisi dei pensatori contemporanei, a prescindere dall’orizzonte culturale cui fanno riferimento, tendono progressivamente ad assomigliarsi, configurandosi quasi tutte come allarmi verso una realtà presente accusata di deficienza etica. L’antica triade Dio, patria e famiglia, tanto cara ai tradizionalisti, accusa crisi profonde. Non va meglio ai devoti del Progresso, che devono fare i conti con uno sviluppo tecnologico pilotato dalla mera convenienza, sempre pronto a rovesciare il nobile monito kantiano dell’umanità da intendere sempre come fine e mai come mezzo.

Per dare ragione di questo tramonto valoriale, si tirano in ballo spiegazioni tra loro diversissime; c’è chi individua la causa prima di questo svuotamento morale in una carenza di religiosità che sarebbe sotto gli occhi di tutti. All’opposto, non mancano coloro che invece leggono il caos odierno come infausto esito di un ritorno della religione, che si manifesterebbe nel rumoroso ritorno dei fanatismi. Sia come sia, per meglio decifrare la crisi odierna, crediamo abbia importanza tornare a riflettere su un’arte caduta da tempo in disuso: quella del dono. Fateci caso: non sappiamo più donare.

L’idea di dono come offerta spontanea e incondizionata – salvo lodevoli eccezioni – da noi non esiste più, è sepolta dal do ut des, dalla manovra strategica, dalla valutazione preventiva, dal calcolo. L’homo economicus spopola: è il tragico inveramento della razionalità strumentale weberiana, il dilagare dell’egoismo fiero d’esser tale. A queste considerazioni si può obbiettare che in realtà il dono continua ad esistere, per esempio in occasioni delle ricorrenze natalizie. Ma si possono davvero considerare doni quelli che siamo “costretti” a mettere sotto l’albero di Natale? O si tratta, piuttosto, di riti consolidati, di scambi bilaterali ai quali prendiamo parte, consapevoli di donare per ricevere e quindi, in definitiva, di non donare liberamente?

Senza nulla togliere all’atmosfera del Natale, c’è da credere più alla seconda ipotesi, confermativa della scomparsa del dono. Ovviamente, ci siamo finora riferiti al dono quale transizione, libera ed inaspettata, di un oggetto, compiuta da un soggetto a beneficio del suo prossimo. Ma che ne è, invece, del dono più totale che una persona possa fare, ovvero del dono di sé? Ha ancora senso, oggi, parlare di abnegazione? Il sacrificio è una realtà ancora praticabile oppure è materia archeologica?

Purtroppo, a causa di un complesso concorso di variabili che non prenderemo ora in esame – e che vanno dal venerato liberismo ai frutti amari del ’68 – la mentalità che va per la maggiore sembra essere quella improntata all’egoismo edonista, che legge le relazioni umane in funzione del profitto che da esse è possibile trarre. La verità, come nota giustamente Marcello Veneziani, è stata detronizzata dal vantaggio. Ma in un mondo di devoti del profitto, che posto può avere il nostro compianto dono? Purtroppo nessuno.

Se si capisse a beneficiare del dono che non è solo colui che lo riceve, bensì anche chi lo elargisce, che ne esce moralmente rigenerato, però forse le cose sarebbero diverse; soprattutto se si ricordasse più spesso che Colui che ha cambiato la Storia non è stato un conquistatore, un imperatore o quel che si dice “qualcuno di successo” bensì un uomo morto sulla Croce, un perdente secondo i canoni correnti, ma senz’altro uno che ha donato, ed ha donato tutto, probabilmente la tendenza sarebbe diversa. Molto diversa. Ha scritto il poeta Prasad Mishra (1901–1988): «L’attimo del dono e dell’offerta d’amore è la festa sacra della vita».