Se è indubbiamente vero che il Movimento 5 stelle ha avuto un impatto notevole sulla politica, influendo anche sulle scelte e sulla comunicazione dei partiti tradizionali, in particolare su temi come il taglio del costo della politica e dei “privilegi della casta”, è altrettanto vero che in una certa misura è successo il contrario. Su tantissimi aspetti, sia nella forma che nei contenuti, il M5s ha tradito sé stesso e soprattutto è diventato simile ai “vecchi partiti” che denunciava. I voltafaccia non hanno riguardato questioni secondarie, ma i temi essenziali e i princìpi fondamentali che hanno ispirato la nascita del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio: costi della politica, trasparenza, democrazia diretta, giustizia(lismo), centralità della rete.
Stipendi
“I nostri parlamentari prenderanno 2.500 euro al mese e restituiranno il resto”, diceva Beppe Grillo dai palchi dello Tsunami tour nella campagna elettorale del 2013. Era comunque uno stipendio degno, dicevano, in tantissimi casi superiore a quello che gran parte degli eletti del M5s percepiva prima di entrare in politica. Ma una volta entrati in Parlamento e fatti un po’ di conti, gli iniziali propositi francescani si sono subito smorzati e pian piano assopiti. I 2.500 euro originariamente previsti sono immediatamente diventati 5 mila lordi, ovvero circa 3.400 euro netti, a cui si aggiungono 3.500 euro di diaria e circa 3.600 euro di spese per il mandato. Di questi due capitoli, che sono dei rimborsi, i parlamentari grillini devono rendicontare le spese e restituire la parte eccedente.
Il problema è che l’occasione fa il cittadino “kasta!” e i grillini si sono romanizzati, cambiando tenore di vita e aumentando le spese del 25 per cento: affitti più cari, case più grandi, maggiori spese per il vitto, per collaboratori e per attività di partito (che non doveva essere finanziato con i soldi pubblici). In due anni gli onorevoli-cittadini sono passati da circa 5.600 euro di spese mensili a 7 mila che si vanno ad aggiungere ai 3.400 euro di indennità, per uno stipendio totale di oltre 10 mila euro al mese. Si tratta di una somma non molto lontana da quella percepita dagli altri parlamentari (in molti casi più alta, dato che molti deputati versano somme al proprio partito), ma in ogni caso distante anni luce dai 2.500 euro sbandierati in campagna elettorale.
Tutto in streaming
“Metteremo in rete tutto, anche le discussioni del movimento”, diceva Beppe Grillo. E la diretta streaming è stata una delle più importanti innovazioni, dagli effetti più tragicomici che rivoluzionari, del M5s. Non è stata di certo una pagina gloriosa della storia italiana l’imbarazzante incontro in streaming concesso da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta a Vito Crimi e Roberta Lombardi nell’estremo tentativo di formare un governo. Non è stato meglio quello che ha confermato la tradizione, tra Matteo Renzi e Graziano Delrio e per il M5s Beppe Grillo in persona e Luigi Di Maio. Quando la diretta streaming non si è trasformata in una nuova messa in scena del teatrino della politica, ha mostrato le discussioni, le liti e i processi grillini, con risultati non più edificanti per l’immagine della nuova politica. In ogni caso la diretta streaming era un punto fondamentale del grillismo, tanto che all’inizio tutte le riunioni dei gruppi parlamentari venivano trasmesse online o comunque registrate. Adesso nulla di tutto ciò accade e la trasparenza si è piano piano appannata, non c’è più una diretta streaming.
E magari sarebbe stato interessante per i militanti vedere cosa ha detto sull’euro e sull’Europa Luigi Di Maio, candidato premier in pectore del M5s, nel lungo colloquio avuto con i 28 diplomatici dei paesi dell’Unione europea nella residenza romana dell’ambasciatore olandese. O come si è comportato e cosa ha detto quando ha incontrato i vertici della Commissione Trilaterale, un gruppo da sempre descritto dal M5s come una specie di Spectre antidemocratica che governa il mondo. Lo streaming viene ormai usato solo in forma di agguato, come quando il neo assessore all’Ambiente di Roma Paola Muraro si è presentata nella sua ex azienda, l’Ama, per cacciare di fatto in diretta il presidente della municipalizzata Daniele Fortini. Non c’è stato invece nessuno streaming quando a giugno la stessa Muraro e il deputato M5s Vignaroli si sono incontrati segretamente, senza avere alcun incarico ufficiale, con Cerroni per stringere un patto con il re della monnezza di Roma.
Trasparenza
Rispetto ai propositi iniziali, sulla trasparenza c’è stata sicuramente un’inversione di tendenza anche sul fronte delle nomine. Originariamente il M5s, in opposizione alla lottizzazione dei vecchi partiti, diceva di voler fare le nomine alla luce del sole per premiare il merito piuttosto che i rapporti di amicizia o di parentela: bandi pubblici e scelta attraverso la selezione dei curriculum. “La rete non deve lasciare soli i sindaci del M5s” scriveva Grillo sul blog, chiedendo agli attivisti di candidarsi per fare il direttore generale al comune della neogrillina Parma. Quel metodo non esiste più (se ha mai funzionato) come dimostra la nomina di Alessandro Solidoro al vertice dell’Ama, dopo le dimissioni di Fortini: “Abbiamo scelto io insieme ai due assessori Paola Muraro e Marcello Minenna”, ha dichiarato il sindaco di Roma Virginia Raggi. I sindaci del M5s ora possono fare a meno della rete. Anche perché in molti casi, come per la nomina della stessa Muraro o del vice capo di gabinetto Raffaele Marra (vicino ad Alemanno), probabilmente i militanti avrebbero fatto scelte diverse.
Uno vale uno
Lo slogan è strettamente legato all’idea che il movimento sia lo strumento per costruire la democrazia diretta, solo che col tempo si è capito che questa democrazia è diretta da Grillo e dalla Casaleggio Associati, ovvero è una democrazia eterodiretta. Il M5s ha smesso di essere una forza fluida e “dal basso” per assumere una forma-partito: i meet up sono inesistenti e le votazioni online sono solo ratifiche di decisioni già prese. Basti pensare alla nomina decisa da Grillo del “direttorio” che è una specie di comitato centrale del movimento oppure alla successione dinastica nella centrale operativa del partito, la Casaleggio Associati, con il passaggio da Gianroberto padre a Davide figlio. La verticizzazione e strutturazione del movimento, che è l’opposto della democrazia diretta, è evidente nella soppressione delle liste grilline nelle città dove c’è discussione o dove non è prevalente la linea dettata da Milano, come nei casi di Salerno, Rimini, Latina, Ravenna. Oppure dove viene imposto il candidato preferito dalla Casaleggio Associati, come Bugani a Bologna, o quando l’esito democratico viene sovvertito, come per il ritiro “spontaneo” della non gradita Bedori che aveva vinto le comunarie a Milano.
La tv è morta, niente talk show
“La televisione è morta da un pezzo, gli unici a non saperlo sono quelli che ci vanno”, scriveva nel lontano 2010 Beppe Grillo. Il rifiuto di partecipare alle trasmissioni di informazione e approfondimento è stato un pilastro del Grillo-pensiero, secondo cui la tv sta ai partiti come il movimento sta alla rete. Ora invece non c’è un talk show in cui non ci sia anche un esponente grillino, anzi, attraverso i social network il M5s pubblicizza ogni partecipazione televisiva delle proprie star Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Paola Taverna e Carlo Sibilia. Eppure secondo il “Codice di comportamento eletti MoVimento 5 Stelle in Parlamento” è ancora vigente la regola che impone di “Evitare la partecipazione ai talk show televisivi”. E’ il principio che nel lontano 2012 portò all’espulsione della consigliera bolognese Federica Salsi per aver partecipato a Ballarò (“Il punto G, quello che ti dà l’orgasmo nei salotti dei talk show. L’atteso quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol”, recitava la sentenza del Sacro blog) ed è la regola che ha portato all’epurazione del senatore Marino Mastrangeli e alla fuoriuscita del deputato Walter Rizzetto, colpevoli di essere apparsi in tv (“Il M5S non ritorna nei talk show”, sanciva il Sacro blog).
Poi per un periodo sono andati in televisione solo i grillini fedeli alla linea e allenati dalla Casaleggio Associati e poi di nuovo divieto: “La decisione di evitare i talk show è un fatto che viene da lontano e che caratterizza nel fondo un modo di essere del Movimento”, diceva il presidente della Commissione vigilanza Rai Roberto Fico (tra l’altro Grillo diceva anche che “la Rai è morta, viva la rete”, ma sarà resuscitata per dare un posto a Fico). Fatto sta che adesso i grillini non si perdono una trasmissione, sono presenti in tutti i talk show, a tutte le ore e su tutti i canali. In cambio però niente più dirette streaming. La tv è risorta, ma è morta la rete.
Due pesi e due giustizialismi
“Non sono a favore della presunzione d’innocenza per i politici. Se uno è indagato deve lasciare”, le parole di Luigi Di Maio sono abbastanza chiare sulla linea del M5s rispetto al rapporto tra politica e giustizia: se uno è indagato deve dimettersi. Ed è il metodo che i grillini hanno applicato a tutti gli altri partiti, chiedendo le dimissioni ogni qualvolta un avversario politico ha ricevuto un avviso di garanzia o in molti casi è stato solo “citato” in qualche inchiesta. Le cose però sono cambiate quando sotto indagine sono finiti gli amministratori del M5s. Per il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, indagato insieme a un assessore per bancarotta fraudolenta, è ritornata in vigore la presunzione d’innocenza e la richiesta di dimissioni si è spostata dall’avviso di garanzia al rinvio a giudizio (Pizzarotti invece è stato sospeso da indagato, ma perché è un dissidente). Il limite è stato poi ulteriormente spostato più in là, probabilmente alla condanna in primo grado, visto che un altro sindaco del M5s, quello di Mira, è già stato rinviato a giudizio e nessuno ne ha chiesto le dimissioni. Il Foglio