La gerarchia delle parole. C’avete mai pensato? E’ una classifica tosta ma della quale, ogni tanto, faremmo bene ad occuparci; per separare gli insegnamenti dalle chiacchiere, le lezioni dalle frasi di circostanza. Un po’ di pulizia e di chiarezza: le perle da una parte e la bigiotteria dall’altra. In tempi di comunicazione continua l’impresa si fa eroica, certo, ma proprio per questo merita di essere tentata: per riscoprire l’essenziale. E a proposito di essenziale, credo faremmo bene a rivalutare l’importanza di due parole comuni che però insieme, e seguite dal punto interrogativo, dicono più di cento trattati: come stai?
Più diretto del generico «come va» e meno utopico del «tutto bene» – scusate, ma quando mai a uno va tutto bene? -, il «come stai» è in genere la domanda che ci rivolge chi ci vuole davvero bene: la curiosità delle madri verso i figli quando intuiscono che qualcosa che non va, l’affettuoso esame di amici che sanno del periodo nero che abbiamo trascorso, il tentativo degli innamorati di foderare con le parole la loro indescrivibile gioia. Il «come stai» è quindi come la borsa di Mary Poppins: cela tante cose a cui normalmente non diamo peso, che però riescono a sorprenderci; le cose piccole ma indispensabili, quelle che tengono accesa la candela della nostra vita.
Perché è dura, molto dura – se ci pensiamo – starsene senza i «come stai», compresi quelli meno profondi. E ci sono persone timide, magari anziane, che anche dopo un banalissimo e stanco «come stai» trovano entusiasmo per un’intera giornata e soprattutto ritrovano la consapevolezza di esistere. La stessa che purtroppo, quando le cose non vanno, viene meno a ciascuno di noi. La consapevolezza che qualcuno sorveglia le nostre smorfie, che qualcuno misura i nostri silenzi ed insegue lo sguardo che nell’ansia gettiamo ovunque pur di non fare i conti con certi problemi. Per quanto banale, il «come stai» è dunque il messaggero della notizia più bella: quella che ci ricorda che, comunque vada, non siamo soli.