In questa angosciante estate, quasi quotidianamente insanguinata da atti di terrorismo, c’è un termine, che è anche un concetto, al quale una certa parte del mondo culturale e politico europeo ricorre con notevole frequenza allo scopo di stemperare il clima incandescente venutosi a creare giorno dopo giorno: integrazione. Occorre più integrazione – è, in sintesi, la rassicurazione – e vedrete che il terrorismo verrà sconfitto e la causa jihadista cesserà di reclutare nuovi ordigni umani, pronti ad immolarsi seminando morte in piazze, strade e centri commerciali. Ora, dato che quello della sconfitta del terrorismo di matrice islamista è scopo comune, è il caso di prendere sul serio, al fine di valutarne la consistenza, ogni proposta, inclusa appunto quella dell’«integrazione».
Una proposta che però a mio avviso, se da un lato sa di ricetta vincente – peccato non averci pensato prima, viene da commentare – dall’altro rivela profondissimi limiti che temo sfuggano a coloro che la appoggiano; tre, essenzialmente. Il primo limite, o comunque la prima criticità della proposta dell’«integrazione», riguarda i destinatari. Siccome non è così semplice individuare un aspirante terrorista per integrarlo, dobbiamo presumere che il processo d’«integrazione» sarà indirizzato ad immigrati (o figli di immigrati) in particolare di fede islamica, no? D’accordo, ma non viene forse ripetuto che non esisterebbe alcun legame, neppure remoto, fra terrorismo, immigrazione ed Islam? E se le cose stanno così, che senso ha parlare di «integrazione»? Si vuole forse far entrare dalla finestra ciò che, liquidandolo come xenofobo, si è sbattuto fuori dalla porta?
Una seconda criticità della ricetta dell’«integrazione» concerne sempre i destinatari di questa; ammesso e non concesso che sia possibile individuare i potenziali terroristi da strappare al fascino delle sirene jihadiste, c’è un piccolo problema: chi ci assicura che costoro siano disposti ad integrarsi? E se un simpatizzante dell’ISIS non ne volesse sapere? E se coloro che condividono e rivendicano una lettura fondamentalista della fede mussulmana declinassero gentilmente l’offerta dell’«integrazione»? Che si fa? Dato che – su questo saremo tutti d’accordo – l’«integrazione» non equivale ad un lavaggio del cervello, essendo l’esito costruttivo di una relazione, non mi paiono interrogativi trascurabili. Certo, si può sempre ribattere che un tentativo di maggiore «integrazione» merita di esser fatto comunque: ma è bene essere consapevoli, appunto, che si tratta di tentativi.
La terza ed ultima problematica connessa alla proposta dell’«integrazione» concerne la natura stessa di chi la promuove. In altre parole, per integrare bisogna essere in grando di farlo: ma l’Occidente e in particolare l’Europa lo è? Non molti giorni fa ascoltavo in televisione, da una raggiante Lilli Gruber, che l’«integrazione» sarebbe possibile e riuscita, in Europa in non pochi casi come provano – secondo lei – il fatto che il sindaco di Londra sia mussulmano e che mussulmano sia un ministro francese. Ora, dinnanzi a chi evoca esempi così specifici a fronte di una questione di portata sociale, non si può non vedere come molti neppure sappiano di che parlano. Vorrei inoltre capire, a proposito di valori sui quali basare un’«integrazione», che cosa un’Europa secolarizzata, in crisi e flagellata dalla denatalità (è il solo Continente al mondo destinato, nei prossimi anni, allo spopolamento) abbia esattamente da proporre. Sarò pessimista, ma temo assai poco.
Anziché insistere con la filastrocca dell’«integrazione» – che, come si è visto, pone questioni allegramente sottovalutare da quanti la recitano – meglio dunque per l’Europa un’autocritica. Ma non un’autocritica politica, economica e neppure culturale, bensì un’autocritica spirituale. Viviamo in un contesto sociale che ha potuto rinnegare le radici cristiane per il semplice fatto che ha già rifiutato Dio. Un rifiuto che ci sta facendo perdere ragioni per vivere (o forse qualcuno vive per l’Ue, l’Euro e Bruxelles?) mentre il nemico, purtroppo, ne trova pure per uccidere. Questa è la realtà dalla quale ripartire, dalla consapevolezza che, di fatto, la fede è il primo vero antidoto al virus del terrore, il solo che ci consentirà di non sottometterci. Proprio come ha fatto l’altro ieri père Jacques Hamel che, alla minaccia di inginocchiarsi ai suoi carnefici, ha preferito la morte. Perché aveva già Qualcuno da ascoltare.