Ci pensavo ieri: non sono mai riuscito a fotografare un tramonto. Non coi risultati sperati, almeno. C’è puntualmente qualcosa – l’intensità del colore, la temperatura, l’emozione – che sfugge all’obbiettivo lasciandomi spettatore di un quadro di luce che vorrei fare un po’ mio. E che invece prima m’illude e m’incanta, e poi scappa all’orizzonte. Sedotto e abbandonato, letteralmente. Certo, magari un professionista farebbe di meglio; magari uno del mestiere, attrezzato a dovere, riuscirebbe ad immortalare qualcosa in più dello spettacolo che i tramonti – soprattutto alcuni – offrono, arredando il cielo con fuoco ed oro. Eppure sono convinto che la vanità del tramonto si lasci sì fotografare, ma fino ad un certo punto. Infatti, come la bellezza di una donna non è né può divenire proprietà esclusiva del marito, men che meno il sole, quando stanco si corica, accetterebbe di farsi impacchettare dentro un rullino fotografico. Giammai. La mia macchinetta – al pari di tutte le altre, comprese le più sofisticate e costose – è dunque destinata parzialmente a fallire, quando lavora di sera. Questo non vuol dire, tuttavia, che la vastità celeste ci sia nemica. Tutt’altro. Il fatto che sfugga a schermi e zoom è difatti dimostrazione che il tramonto preferisce il nostro sguardo, noi che macchine non siamo e che proprio per questo, se guardiamo con attenzione, sappiamo cogliere la totalità di quella meraviglia che ogni sera, a sua volta, guarda dentro di noi.