È il trentanovenne Neil Armstrong, che in italiano vuol dire Braccioforte. Ma il nome non gli si addice, soprattutto per via della faccia che è dominata da un nasino all’insù, dispettoso, e da una bocca a salvadanaio, maligna, dove il labbro superiore è invisibile perché troppo sottile. Le guance sono infantili, rotonde. Gli occhi sono piccoli, azzurri, e di rado si piantano con decisione nei tuoi. La pelle è rosea, lentigginosa. I capelli, color biondo carota, cortissimi. E anche se scendi al corpo che è lungo, irrobustito da faticosi esercizi in palestra, concludi che il tutto è decisamente antipatico. Io, quando lo conobbi cinque anni fa, me ne sentii respinta e molta gente m’ha detto d’aver provato la medesima cosa. Anche a causa della sua timidezza che è enorme e che egli combatte con l’arroganza. Per un nulla arrossisce, vampate di calore gli salgono dal collo alle tempie dove le vene si gonfiano in cordoncini paonazzi, e ogni volta che questo avviene Neil Armstrong si arrabbia e più si arrabbia più diventa sgarbato. Allora, per rimediare, sorride. Ma è un sorriso così smarrito, così sforzato, che riesce solo a complicare le cose, ad aumentare il suo imbarazzo che si traduce in una voce stridula come la voce di una donna bizzosa. V’è un che di femmineo, in Neil Armstrong. Di indifeso, di debole. Dichiara un suo amico: «Certo che gli piacciono le donne. Ma la sua unica donna è sua moglie. Dove trovò il coraggio di averla? Non lo trovò, fu Janet a conquistarlo. Janet ha un temperamento virile».
Tale premessa non deve trarti in inganno, indurti a credere che Neil Armstrong nasconda una qualsiasi dolcezza. Chiunque te lo descriverà come «a cold, calculating guy. Un tipo freddo, calcolatore». Il suo modo di pensare e di vivere è rigido quanto una operazione aritmetica, tutto in lui è calcolato come dentro un computer e fra i cinquantadue astronauti americani è colui che più di ogni altro possiede le virtù del robot. Vale a dire assenza di passioni, ordine e legge, controllo, nessuna fantasia. Se l’umanità del futuro sarà un esercito disciplinato di creature asettiche, cervelli elettronici, Neil Armstrong è già il futuro. Niente lo interessa fuorché volare, conoscere le macchine che servono a volare. Niente lo seduce fuorché la tecnica necessaria ad andare sulla Luna, e la Luna stessa per lui non è che uno strumento per applicare quella tecnica. Apprenderai dalla sua biografia che imparò a guidare l’aereo prima dell’automobile, che si laureò molto presto in ingegneria aeronautica, che divenne subito pilota collaudatore e che all’infuori di ciò non fece mai altro. Non lesse mai un romanzo o una poesia, non ammirò mai un quadro, non andò mai a un concerto, non si formò mai un’idea politica, non trasse mai piacere da qualcosa che non fosse un’elica o un reattore. Il suo unico hobby, quello cui dedica ogni domenica, ogni vacanza, sai qual è? Il volo planato. Sicché parlare con lui è una sofferenza che sfiora l’incubo. Io, che l’ho visto più volte in questi anni, non sono mai riuscita a stabilire con lui un contatto che assomigliasse a un contatto umano, a farlo mai indulgere a un attimo di cordialità, di curiosità, di calore, ammenoché non pronunciassi le parole Mercury, Gemini’, Apollo, LM. Credo che metta conto riportare qui l’intervista che ebbi con lui nel 1964, e che incominciò con la mia esclamazione: «Che bella cosa, signor Armstrong, lei non è un militare!», perché mi avevano detto che non è un militare.
«Vengo dalla NASA dov’ero ingegnere elettronico e collaudatore di jet. Non fa poi gran differenza. Voglio dire che di disciplina ne ho quanto gli altri e per andare nello spazio serve la disciplina anzitutto. Del resto non è che scelgano i militari perché sono più adatti di noi borghesi: li scelgono perché sono impacchettati e quindi è più facile pescare quello giusto. Dei militari si sa tutto, anche in quale misura ci si può fidare. Ma sapevano tutto anche di me: sono da un mucchio di anni nella NASA».
ORIANA FALLACI. Dev’essere stata una bella gioia, comunque, diventare astronauta.
NEIL ARMSTRONG. «Non saprei. Mi ci faccia pensare…»
Non ci ha ancora pensato?!
«Per me è stato il semplice trasferimento da un ufficio all’altro. Ero in un ufficio e m’hanno messo in quest’altro. Be’, sì, penso che m’abbia fatto piacere. Fa sempre piacere salire di grado. Ma un ufficio o l’altro è lo stesso: io non ho ambizioni personali. La mia sola ambizione è contribuire alla riuscita di questo programma. Non sono un romantico».
Niente gusto dell’avventura, perciò.
«Per carità. Io odio il pericolo, specialmente se inutile, e il pericolo è il lato più irritante del nostro mestiere. Il più stupido. Come si può trasformare in avventura un normalissimo fatto di tecnologia? E perché rischiare la vita guidando un’astronave? Illogico quanto rischiare la vita usando un frullatore elettrico per fare un frappé. Non dev’esserci nulla di pericoloso a fare un frappé e non dev’esserci nulla di pericoloso a guidare un’astronave. Una volta applicato questo concetto, cade il discorso sull’avventura. Il gusto di andare su tanto per andare su…»
Io, signor Armstrong, conosco qualcuno che andrebbe su anche sapendo di non tornare giù, solo per il gusto di andare su.
«Tra noi astronauti?»
Anche tra voi astronauti.
«Lo escludo. Se lo conoscesse, sarebbe un ragazzo. Non un adulto. Io sono un adulto».
Signor Armstrong, a parte il frappé, le dispiacerebbe non andare sulla Luna?
«Sì, ma non ci farei una malattia, non la prenderei come un’offesa. Io non capisco, vede, quelli che sperano tanto di andarci per primi. Sono sciocchezze, bambinate, residui romantici: indegni dell’epoca razionale nella quale viviamo. Ed escludo che accetterei di andare sulla Luna sospettando di non tornare giù: ammenoché non fosse tecnicamente indispensabile. Voglio dire: collaudare un jet è rischioso ma tecnicamente indispensabile. Morire nello spazio o sulla Luna non è tecnicamente indispensabile e, di conseguenza, fra morire collaudando un jet e morire sulla Luna, io scelgo di morire collaudando un jet. Lei no?»
Io no. Dinanzi a un simile dilemma, scelgo subito di morire sulla Luna. Almeno mi vedo la Luna.
«Bambinate, sciocchezze! Morire sulla Luna per vedere la Luna! Si trattasse di restarci un anno o due, forse… Non so. No, no, sarebbe un prezzo troppo alto lo stesso: perché irrazionale. Oh, se riuscissimo a sgombrare il campo dalle fanfare su questa Luna! Basta con questi sogni, con queste fanfare!»
Signor Armstrong, lei è stato alla guerra?
«Certo. In Corea. Settantotto missioni di combattimento».
Signor Armstrong, lei ha figli?
«Certo che ho figli. Due. Dovrei non aver figli alla mia età?»
Signor Armstrong…
«È scaduto il tempo, la saluto. Devo tornare nella centrifuga per allenarmi alle alte forze di gravità».
Non la invidio, signor Armstrong.
«Sì, è irritante. Forse ciò che odio di più. Ma è tecnicamente indispensabile. Mi spiego?»
Sì. Tecnicamente indispensabile.
«Buongiorno, allora».
Buongiorno.