Gaudì, il genio incomprensibile che lavorava per Dio

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di Claudia Cirami

Irriconoscibile per tutti, come un derelitto tra tanti. Come il più misero tra i rappresentanti di una periferia esistenziale ante litteram, occultato da abiti cenciosi e aspetto trasandato. Così Antoni Gaudí, genio indiscusso dell’architettura novecentesca, si accomiatò dal mondo. Accadde un 7 Giugno di novant’anni fa, l’artista spagnolo fu investito da un tram (morirà pochi giorni dopo, il 10 dello stesso mese). Condotto in un ospizio per mendicanti, solo il giorno dopo l’incidente qualcuno si accorse che quel pover’uomo, piagato dai traumi dell’incidente e da apparenti stenti, era l’artista a cui Barcellona doveva (e dovrà nel tempo) gran parte della sua straordinaria bellezza. L’inconsueta morte è riverbero perfetto di una vita singolare, tutta consumata tra misticismo e arte. Forse, persino, al limitare di quella soglia sottile dove la creatività incontra la follia e la genialità danza con l’alienazione. Con la preghiera in arte o l’arte-preghiera come un misterioso perno su cui far roteare tutta la propria esuberante e incontaminata inventiva o appoggiarsi per non precipitare nel gorgo infausto della pazzia.

L’ “architetto di Dio” – così è stato soprannominato – è figura tutt’ora complessa e affascinante. La sua sembra la scelta di una radicalità evangelica difficile da catalogare, che lo assimila a figure singolari della storia del cristianesimo, altri “folli in Dio”, come san Benedetto Labre, per esempio. Chi lo vorrebbe coronato di gloria e santificato per decreto ecclesiale, ricorda quell’esistenza che, mentre il suo tempo si invola verso l’epilogo triste, si vota sempre di più ad uno stile di preghiera e sacrificio, che già serve a “canonizzarlo” nell’immaginario popolare. Le biografie ci raccontano di severi digiuni ed è «plausibile concludere che questi e altri rigori a cui sottoponeva il suo corpo – come dormire con le finestre aperte nell’umida Barcellona o seguire una dieta scarna e scompensata – abbiano contribuito ad aumentare le sofferenze che afflissero i suoi ultimi anni, come l’artrite, l’anemia e la brucellosi» (Juan Josè Navarro Arisa, Gaudí. L’architetto di Dio, Paoline, Milano 2003, p.126).

È all’infanzia di Gaudí che risalgono due fra gli elementi che più ebbero importanza nello sviluppo della sua personalità artistica. Prima di tutto la nascita, avvenuta il 25 Giugno del 1852, in una famiglia di calderai – lavoratori di pentole, principalmente di rame – che lo mise in contatto con il lavoro manuale e con la produzione di oggetti. Il secondo elemento è la salute cagionevole, a causa della quale dovette passare lunghe ore senza attività, che trascorreva nella contemplazione della natura, il cui Libro ha un Creatore non meno fantasioso e creativo del futuro architetto. Successivamente andò a Barcellona, dove concluse gli studi in architettura portandosi dietro, come un marchio o una promessa, il noto giudizio che diede di lui un suo professore: «Non so se abbiamo conferito il titolo a un pazzo o a un genio, con il tempo si vedrà». L’enigmatica indole guadiana – sospesa tra l’irrazionalità e l’estro – era già in nuce e qualcosa in lui lasciava presagire che avrebbe potuto essere vocato a grandi opere, di quelle che sfidano i secoli perché, pur penetrando nel contemporaneo, sanno esprimersi con un linguaggio che sa d’eternità.

La giovinezza catalana di Gaudì – che Joan Mirò definì «il primo tra i geni» – è normale, seppur permeata da quella sensibilità che rende ogni artista sempre un passo avanti rispetto agli altri. Gaudì frequenta la vita sociale della sua epoca, tra teatri e incontri pubblici, mentre la sua fama inizia a diffondersi e le richieste di commissioni aumentano. I suoi capolavori, però, hanno a che fare con il graduale ma inflessibile addio alla mondanità e con la scelta di un’esistenza sempre più severa e ritirata. Appartengono a questi anni la Torre Bellesguard, il parc Güell, il restauro della cattedrale di Maiorca, la chiesa di Colonia Güell, la Casa Batlló, la Pedrera e, come ultima realizzazione, la Sagrada Familia, che diventa non solo la sua vita, ma persino la sua casa, dato che, nel corso del tempo, pur possedendo una sua abitazione a Barcellona, andrà a stabilirsi in una piccola camera, all’interno del cantiere. A quell’ultima opera dal 1910 dedicherà tutto se stesso, lasciando perdere gli altri lavori e obiettando a chi vedeva che la maestosità della costruzione non gli avrebbe mai consentito di vederla finita che il suo Cliente non aveva fretta.

La Sagrada Famiglia parla di lui, forse ancor più di come lo possano descrivere i biografi o le testimonianze da loro raccolte. L’opera è gaudiana fin da quando egli vi iniziò a lavorare, nel 1883, subentrando al progetto iniziale. Forse sarà finalmente pronta, secondo le previsioni, fra dieci anni (anche se non è ancora certo). Eppure la sua imponente incompiutezza la rende già un capolavoro. Come fosse una visione di pietra di quella tensione escatologica che anima il cristiano, sospeso tra il “già” dell’edificazione del Regno di Dio che inizia a partire da questa terra e il “non ancora” della visione beatifica della Trinità verso cui è proiettato. E non solo. Benedetto XVI, che ha elevato la creazione gaudiana al rango di Basilica Minore il 7 novembre 2010, ha detto: «Nel cuore del mondo, di fronte allo sguardo di Dio e degli uomini, in un umile e gioioso atto di fede, abbiamo innalzato un’immensa mole di materia, frutto della natura e di un incalcolabile sforzo dell’intelligenza umana, costruttrice di quest’opera d’arte. Essa è un segno visibile del Dio invisibile, alla cui gloria svettano queste torri, frecce che indicano l’assoluto della luce e di colui che è la Luce, l’Altezza e la Bellezza medesime».

Adorno ha spiegato l’architettura di Gaudí con il congiungersi, nella cultura spagnola, di cattolicesimo, islam e persino elementi provenienti dalla cultura zingara, ma anche lui ha reso onore all’estro creativo e per tanti versi originale, nonostante le inevitabili influenze, dell’immaginifico architetto spagnolo (P. Adorno, L’arte italiana, vol. III, tomo secondo, pp. 615-620). In Gaudì, infatti, la giocosità infantile, l’uso del colore, la morbidezza delle forme, l’andamento voluttuoso dei volumi rendono le costruzioni come sogni, dove il volutamente insolito risulta indefinito proprio come accade nelle visioni oniriche, con la realtà trasfigurata dai contorni surreali della mente che, in uno stato di mancata vigilanza, si lascia andare. Quasi un contraltare al rigoroso cammino ascetico dell’architetto spagnolo, che potrebbe stupirci, a prima vista, se non sapessimo, tuttavia, che il mistico non è una persona che ha rinunciato alla gioia, ma, al contrario, la sperimenta in una dimensione superiore, proprio perché si radica in Dio e in Dio soltanto. 

Alla Sagrada familia, vero testamento su pietra di Gaudí, è legata anche la testimonianza di una spiritualità che si esprime nella ferialità, informando l’agire dell’uomo, con ricadute importanti nella vita di chi gli sta accanto. Un biografo scrive: «il cantiere era considerato come una comunità cristiana modello, nella quale la nobiltà del lavoro poteva essere integrata con successo nella vita quotidiana. Gaudì era, secondo tutti i racconti, severo ma giusto» (G. Van Hensebergen, Gaudí, p. 280). Nello stesso testo leggiamo che consentiva ai lavoratori più anziani, in un’epoca in cui nessuno pensava a loro, di rimanere a lavorare, occupandosi, però, di mansioni più lievi; di lasciare che altri operai coltivassero orti all’interno del cantiere, per il sostentamento delle loro famiglie; di far vendere ad un mendicante qualche cartolina della Sagrada Familia in costruzione e altri oggetti perché potesse sopravvivere.

La causa per vedere Gaudì sugli altari è iniziata negli anni 2000. I sostenitori di questa portano, come testimonianze della sua santità, oltre la vita vissuta nel rigore penitenziale e nella carità per gli altri, anche le conversioni che alcuni hanno sperimentato all’interno della Sagrada Familia, il fatto che lì non si siano mai verificati incidenti mortali tra gli operai dal 1882 e persino la guarigione di una donna che sarebbe avvenuta dopo che questa aveva chiesto l’intercessione dell’architetto. L’uomo che fu salutato da una folla immensa quando si seppe che era morto – e che tutta Barcellona sente come un patrimonio nazionale – un giorno potrebbe essere santo. La più nota delle conversioni è quella di Etsuro Sotoo, scultore giapponese che lavora all’interno della Sagrada Familia da anni, e che, avvicinatosi all’opera di Gaudì da non credente, ha poi chiesto il Battesimo.

Quando fu investito, Gaudì si stava recando all’ appuntamento con il direttore spirituale. Nell’incidente in cui fu ferito mortalmente, fu soltanto il quarto taxi, tra i diversi chiamati da alcuni passanti, a fermarsi per soccorrerlo. Per quello che appariva un vagabondo in pochi erano pronti ad adoperarsi: l’indifferenza del levita e del sacerdote, nella parabola del buon samaritano, non perde mai la sua attualità. Riguardo al tram, per una curiosa coincidenza, non è la prima volta che questo mezzo devasta la vita di un artista. Accadde anche con Frida Khalo, appena un anno prima della morte di Gaudí, quando uno di essi si scontrò con l’autobus su cui lei viaggiava. Nel caso della Khalo, l’incidente segnò in modo potente la sua vita, costringendola a lunghe ore di stasi in cui approfondì il suo amore per la pittura ma anche ad una laica via crucis, fatta di sofferenze e ricoveri, alternati a periodi in cui stava bene, che la portò lentamente ma inesorabilmente alla morte, avvenuta anni dopo lo scontro che l’aveva ferita. Per Gaudí, invece, l’incidente col tram fu il quasi subitaneo passaggio verso l’altra Vita che aveva in fondo preparato nei lunghi anni della sua attività creativa e del suo fervore mistico, lui «architetto geniale e cristiano coerente, la cui fiaccola della fede arse fino al termine della sua vita, vissuta con dignità e austerità assoluta» (Benedetto XVI, omelia già citata). Non c’è legame tra le due esistenze, se non la passione artistica ed un tram che impatta tragicamente un’esistenza. Perché, a volte, la vita diventa uno spettacolo anomalo, di cui è complesso, quasi impossibile, comprendere la trama portata in scena. Rimane solo un tram che impatta e un’esistenza che, in un modo o nell’altro, si spegne. L’unica consolazione può arrivare dalla convinzione di aver speso bene il tempo concesso e da quella Speranza a cui, nei giorni lieti, come in quelli bui, si è fatto affidamento. Quella che non delude. Perché Dio non è un tram e il suo non è un incontro che uccide.