Si può essere d’accordo o meno con Brexit, entusiasti o terrorizzati, ma i commenti usati dalla nomenklatura europeista del nostro Paese lasciano basiti. La scelta del popolo inglese, perché di questo si tratta fino a prova contraria, ha spinto Giorgio Napolitano a parlare di «azzardo sciagurato», Romano Prodi ad insinuare che l’idea del referendum sia nata solo per gli «interessi personali» di Cameron, Mario Monti a teorizzare che «la democrazia si possa perdere se usata male». Ed ancora, nel campo degli intellettuali o pseudo tali, Severgnini ha offerto la lettura classista («ha scelto il popolino»), mentre Saviano, a cui piacciono le scorciatoie, ha ricordato che anche Hitler e Mussolini furono acclamati dal popolo. Nell’analisi del voto non è andata meglio. C’è chi ha rimarcato che la maggioranza dei giovani sotto i 24 anni (ma solo il 36% di queste generazioni si è recato alle urne) ha votato per il Remain,come se quelli al di sopra fossero già rimbambiti, c’è chi ha messo i figli contro nonni e genitori, e chi, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, ha subordinato il diritto di voto «ad un esame di cittadinanza»: declinando, declinando queste banalità allora si potrebbe proporre di inserire – visto che il 70% dei musulmani ha scelto il Remain mentre il 58% dei cristiani il Leave – la mezzaluna nella bandiera dell’Unione. Ma l’apoteosi di questo atteggiamento singolare è nell’enfatizzazione che i media italiani, e non solo, fanno giorno dopo giorno della raccolta di firme per ripetere il referendum: uno, due, tre milioni. A parte il fatto che è stata aperta una inchiesta per frode (chiunque può firmare, pure i cinesi, come nelle primarie del Pd), dimenticano che gli inglesi che hanno scelto di lasciare sono stati 17 milioni e mezzo. È come se qualche anno fa, all’indomani della vittoria di Romano Prodi alle elezioni, Silvio Berlusconi avesse promosso una petizione per ripetere il voto. O viceversa.
Due considerazioni: la prima è che hanno perso la testa; la seconda è che sono loro, solo loro, a rappresentare l’Europa che ha perso. Quella che scambia la scelta europeista per un obbligo, quella che ha fatto della retorica un dovere, quella che prova a superare il dissenso non con la persuasione della politica ma con le minaccia dei mercati, quella che ha trasformato le categorie dell’Unione in antinomie di parole come democrazia, consenso, autodeterminazione dei popoli. Una logica sciagurata specie in un Paese come il nostro in cui basta lo slogan «una testa, un voto» per assicurarsi un terzo degli elettori. Una filosofia che ha trasformato il sogno dell’Europa nell’incubo di questa Unione.
Già, il primo problema della Ue è proprio il deficit di democrazia, che ha trasformato l’Europa dei popoli, nell’Europa delle burocrazie, dei grand commis della Ue. Una comunità in cui un cittadino tedesco conta più di un greco, uno spagnolo, un italiano messi insieme. Una unione in cui Berlino non decide solo le scelte di Bruxelles, ma anche le politiche di Atene, Madrid e Roma. E il «paradigma» di queste contraddizioni, di questo rapporto subordinato, l’Italia lo ha già vissuto tragicamente sulla sua pelle: questa Unione da «paura» che oggi contesta l’esito del referendum inglese, nel 2011 impose la nascita di un governo diverso da quello regolarmente eletto, senza passare per nuove elezioni. Gli stessi nomi che oggi mettono sul banco degli imputati i cittadini di Sua Maestà assecondarono i disegni del gran maestro dell’europeismo italiano, l’allora presiedente della Repubblica Giorgio Napolitano, per far fuori il governo del Cavaliere, al grido, quanto mai scontato, «ce lo chiede l”Europa». Motivo? Il premier di allora giudicava sbagliata la politica intimata da Berlino a Bruxelles, quella del rigore ad ogni costo, suggerendo più o meno quella dell’amministrazione Obama, che ha consentito agli Usa di dimezzare in pochi anni la disoccupazione. Per cui la nomenklatura europeista, come ha raccontato Alain Friedman nel suo libro Ammazziamo il Gattopardo (i giornali italiani all’epoca erano appassionati solo di Ruby e dintorni), pensò bene di rimuovere il governo del Cav, attuare la sciagurata ricetta del «governatore» tedesco in Italia Mario Monti, salvo poi, anni dopo, ritornare sui propri passi, e applicare, tardi e male, la dottrina di Washington. Conferme del famigerato «disegno» ce ne sono state e ce ne sono a bizzeffe: l’ultima quella del capogruppo dei deputati leghisti di allora Reguzzoni, che ha raccontato come il Nap gli chiese di far fuori Berlusconi. Magari se altri due protagonisti di quelle pagine, come Fini e Tremonti, raccontassero la loro verità, non sarebbe male, per l’Italia ma anche per l’Europa: sapere come quel mondo condiziona i Paesi rappresenterebbe un prezioso insegnamento per il futuro.
Ma questa è Storia. Ciò che importa oggi è che la filosofia non è mutata: per queste presunte élite europeiste rimuovere un governo o l’esito di un referendum, infischiandosene del processo democratico, fa parte del gioco. Non si tratta di golpe ma di una concezione diversa della democrazia, appunto, «elitaria». Il «bene supremo», innanzitutto. Oggi «l’europeismo» delle élite, come una volta, per azzardare un paragone, il comunismo delle avanguardie. Una visione totalitaria che non ammette dubbi e ripensamenti. In entrambi i casi lontana dai popoli. Ma è proprio quest’idea dell’Europa che è andata in crisi, non il sogno ma l’incubo. Un’idea spietata e astratta (pensate alla Grecia) che spinge qualcuno ad azzardare il paragone Unione europea e Unione sovietica. In cui i Paesi membri non partecipano al governo dell’Unione ma subiscono i diktat di un’entità astratta priva, per alcuni versi, di legittimazione. La crisi dell’ideale europeo è proprio in questa lontananza. Il presidente Mattarella ha commentato il Brexit con le parole «rispettoso rammarico». Quel rispetto che manca, purtroppo, ad un certo europeismo de’ noantri. IlGiornale