Forse non ve ne siete accorti, o forse sì, ma civiltà, identità e patria sono ormai diventate – da ordinarie che erano – parole bruttine, termini da pronunciare sottovoce e comunque da impiegare con cura estrema, pena l’umiliante classificazione di guerrafondaio del maneggiatore incauto. Persino in questa fase, con mezza Europa nel mirino del terrorismo di matrice islamista, è per esempio sconsigliato dichiararsi orgogliosi – al di là del fatto che, poi, lo si sia davvero – di essere cristiani: l’accusa di essere seguaci di Oriana Fallaci (1929-2006), scrittrice verso la quale molti riservano un astio superiore a quello per i miliziani dell’Isis, pende infatti come minacciosa e affilatissima spada di Damocle. D’accordo, ma come mai?
Perché civiltà, identità e patria sono divenute parolacce? Una prima, attendibile ipotesi – ed utile pure, a ben vedere, per spiegare anche l’analogo abbandono della triade «Dio, patria e famiglia» – è che ciascuno di questi termini venga progressivamente rigettato perché impone a chiunque di fare i conti con una domanda: chi sono? Sono occidentale o indistintamente appartenente alla specie umana? Sono cristiano o musulmano o altro ancora? Sono prima europeo o prima italiano? Quesiti simili, com’è evidente, impongono una riflessione che, in anni in cui la pigrizia mentale – anche fra le persone più istruite – è non solo accettata ma viene astutamente contrabbandata come apertura mentale, appare più che mai scomoda.
Una seconda ipotesi per cui di civiltà, identità e patria appare poco consigliabile parlare è che sono parole in nome delle quali è possibile una divisione, una divergenza, in linea teorica pure uno scontro. E se c’è una cosa – oltre alla poc’anzi ricordata riflessione sulle proprie radici – che oggi è politicamente scorretta è proprio la divisione o, meglio ancora, la differenza. Più comodo risulta infatti dirsi tutti uguali e confondere la sacrosanta uguaglianza di ogni persona in quanto tale con la truffaldina omologazione di ogni individuo che viene così progressivamente spogliato di ciò che è oggi e di ciò che era ieri, entrando dunque sempre più in crisi nel pensare a ciò che sarà domani al di là di una possibilità, servita su un piatto d’argento dalla cultura dominante: essere, fare e pensare come tutti.
Si può ancora – come ipotesi terza, ma non alternativa alle precedenti – immaginare che la cattiva fama dei termini civiltà, identità e patria derivi dal fatto che ancora oggi è difficile dire «civiltà», dire «identità» o dire «patria» senza dire – o almeno trovarsi a riflettere – su una quarta parola che può essere ritenuta, a seconda dell’angolatura in cui la si considera, sorgente di ciascuna di queste: Dio. E dato nell’Occidente sazio e disperato, per dirla alla Giacomo Biffi (1928-2015), di tutto si può parlare fuorché di Dio, riflettendo sul quale potremmo in effetti capire, in tempi di secolarismo, quanto in realtà siamo spiritualmente poco sazi e molto disperati, di conseguenza anche civiltà, identità e patria vengono sempre più messe al bando come parole e concetti proibiti; da custodire, se proprio si vuole, ma da tenere lontano dalla portata dei bambini.