Ha fatto molto scalpore, nei mesi scorsi, la notizia secondo cui appena sessantadue persone deterrebbero la stessa ricchezza della metà della popolazione mondiale. Ed è vero: lo sostiene un recente rapporto dell’Oxfam, ONG inglese per la lotta alla povertà, nel quale fra l’altro si ricorda come le sostanze della classe agiata siano sempre più concentrate nelle mani di pochi eletti. Questo ha suscitato indignazione in molti, cosa che ha provocato molti commenti critici, forse anche troppi nel momento in cui si mettono nel mirino con povertà, impoverimento e diseguaglianza come se fossero sinonimi. Intendiamoci: che poco più di sessanta individui siano ricchi come miliardi di altri messi assieme è un fatto scandaloso e che ha dell’incredibile.
Chi però avesse dato un’occhiata alle quarantatré pagine del documento dell’Oxfam – che s’ntitola An Economy For the 1%. How privilege and power in the economy drive extreme inequality and how this can be stopped – saprebbe che questo, in realtà, contiene anche qualche dato positivo. Per esempio, se da un lato evidenzia come la ricchezza dei sessantadue maggiori Paperoni e quella della metà meno abbiente della popolazione mondiale, per la prima volta, coincidano, dall’altro illustra come la metà meno abbiente del pianeta da oltre due anni – dopo un impoverimento subito fra la metà del 2009 e del 2013 – veda la propria ricchezza stabilizzata ad un valore maggiore rispetto a quello rilevato dieci anni fa e abbondantemente superiore, per la verità più che doppio, rispetto a quello fatto registrare nell’anno 2000.
Nel rapporto Oxfam, inoltre, si legge come, fra il 1990 e il 2011, la crescita economica mondiale abbia strappato alla povertà quasi un miliardo di persone e come, considerando l’intera popolazione del pianeta, la quota di coloro che vive in condizioni di estrema povertà si sia percentualmente ridotta – anzi più che dimezzata, a dirla tutta – passando dal 36 per cento del 1990 al 16 per cento nel 2010. Possiamo dunque pensare tutto il male possibile delle sessantadue persone più ricche del pianeta e dello squilibrio della ricchezza mondiale, ma la tesi secondo cui i poveri sarebbero sempre più poveri, molto semplicemente, non corrisponde al vero. Un discorso a parte merita poi il tema della diseguaglianza, sul quale discutono in molti ma pochi hanno la pazienza di informarsi.
Per brevità, su questo argomento, segnalo i contenuti dell’importante e recente dossier Diseguaglianza economica in Italia e nel mondo (2015), realizzato dalla “Fondazione Hume” per il Sole24Ore a cura di Luca Ricolfi e Rossana Cima e con altri collaboratori autorevoli. Si tratta di un documento molto importante perché analizza, numeri alla mano, più di cinquanta anni di storia della diseguaglianza in quasi tutti i Paesi del mondo offrendo risposte inattese e soprattutto meno catastrofiche di quelle che si potrebbero pensare. Premessa: un conto è la diseguaglianza all’interno di un unico Paese, un altro quella relativa alla ricchezza fra diversi Paesi o Continenti ed un altro ancora quella mondiale fra tutti, come se il pianeta fosse un unico, immenso stato.
Ebbene, anche prendendo come riferimento quest’ultima chiave di lettura e basandosi sui dati che gli studiosi hanno elaborato a partire da inizio ‘800, gli esperti della “Fondazione Hume” segnalano come la «disuguaglianza mondiale, ossia la disuguaglianza tra tutti i cittadini del mondo, considerato come un unico stato» sia «lentamente ma progressivamente aumentata dal 1820 al 1950, con un periodo di stazionarietà durato dal 1910 al 1929; ha continuato ad aumentare sino agli anni ’60, è rimasta pressoché stabile dal 1970 al 1992 per poi diminuire sino al 2008» quindi «il mondo sembra essere diventato sempre meno disuguale, anche se c’è il dubbio che si tratti di una dinamica favorevole quasi esaurita, durata al più un decennio» (pp.5-6-9). Anche se il presente e soprattutto il futuro sembrano incerti, i toni catastrofici non sono poi così giustificati.
Il discorso sulla diseguaglianza cambia se si sposta l’attenzione agli squilibri di ricchezza interni agli Stati, negli ultimi anni cresciuti – questi sì – in buona parte del mondo ad eccezione di due sole «regioni caratterizzate da una diminuzione delle disuguaglianze […] l’America latina e l’Africa subsahariana dove tuttavia si registra un aumento di disuguaglianza per almeno un quarto delle nazioni considerate» (p.10). Sarebbe pertanto sbagliatissimo ritenere quella della uguaglianza una sfida superata, ma neppure stracciarsi le vesti come se tutto volgesse inesorabilmente al peggio avrebbe molto senso. Ragion per cui, appare importante – al di là di un’analisi critica del sistema economico mondiale che, per brevità, non possiamo qui svolgere – individuare un obbiettivo come prioritario rispetto agli altri.
Ebbene, considerando che la diseguaglianza – laddove assume dimensioni impressionanti – è certamente negativa ma è molto meno letale della povertà e neppure, di per sé, garanzia di benessere (un Paese di soli poveri sarebbe un Paese con poca diseguaglianza, ma non certo felice o giusto), è forse opportuno concentrare l’attenzione sulla lotta alla povertà. Senza però farsi cogliere dal panico e, soprattutto, senza farsi ingannare da una quantificazione solo monetaria del fenomeno della povertà. Sappiamo infatti che esiste anche una povertà spirituale e morale che sfugge alle statistiche ma da avversare quotidianamente, soprattutto in Europa. Ne va infatti non tanto e non solo dell’economia, ma del significato stesso del nostro essere persone e cittadini. Qualcosa che, una volta perduto, determinerebbe un prezzo davvero troppo alto.