Un ponte che attraversa la Storia

Sharing is caring!

ponte-stretto

di Valerio Musumeci

«Il ponteeee… il Ponte sullo Stretto di Messina che sarà una meravigliaaaa…». Con queste parole Silvio Berlusconi arringava, nel febbraio 2013, i convenuti al Teatro Politeama di Palermo ove si trovava per la campagna elettorale del quasi-pareggio e della spolverata alla sedia di un celebre collega. Il boato del Politeama confermava all’oratore le molte speranze e le visioni magnifiche dei siciliani, da carezzare e cavalcare (era ancora Cavaliere). Nonostante lo slogan fosse un po’ trito (Berlusconi era stato sponsor instancabile dell’opera, senza mai tuttavia riuscire a dare il via ai lavori), c’è da credere che il pallottoliere dei voti del PdL in Sicilia crebbe sostanziosamente a questo rinnovato annuncio. Poi vennero il pareggio, il bis di Napolitano e il grigio Letta, e non se ne parlò più. Fino a pochi mesi fa, quando l’irriducibile Alfano ripescò l’idea e il premier Renzi la avvallò previo recupero delle altre emergenze del Mezzogiorno d’Italia.

Il fatto è che il Ponte non è solo un ponte. Questo è il problema, parlando dell’opera che dovrebbe collegare la Sicilia all’Italia e l’Italia ad un nuovo, radioso futuro. Il Ponte è mito, è storia, è il decamerone non scritto di tutti i sogni che lo hanno riguardato, dai Romani ai Viceré ai ministri del Regno d’Italia, dal Duce a Craxi a Berlusconi, da Monti che lo cancellò dalla sua agenda ad Alfano che proditoriamente lo ha recuperato. Se Renzi non spacca un righello in testa al suo fondamentale ministro dell’Interno, e promette che il Ponte si farà, non abbiamo ragione di dubitarne. Se subordina la realizzazione all’aggiustamento di altri gravi problemi del Sud (quindi le strade interrotte, i viadotti franati, le voragini spalancate, i treni deragliati, gli acquedotti sfasciati), tanto meglio. Per passare il tempo, mentre il premier lavora indefessamente a tutto ciò, vediamo un po’ di storia e iconografia del Ponte.

Alfano non sa di essere l’ultimo erede di una tradizione pontificatoria che parte duemila e mezzo (così Boldi e De Sica) anni fa. La storia è questa: sconfitto il cartaginese Asdrubale a Palermo, il console Lucio Cecilio Metello, della gens dei Cecilii Metelli, si trovava nella situazione di dover trasportare a Roma centoquaranta elefanti strappati al nemico, da riutilizzarsi per il trionfo e il sollazzo visivo della Repubblica Romana. E’ il 251 a.C.: il console osserva lo Stretto e gli viene l’idea di costruirvi un ponte di barche. Plinio il Vecchio racconta nella Naturalis Historia i diversi tentativi di convincere i pachidermi a passare di nave in nave per giungere finalmente sul Continente, dove in molti sarebbero crepati sulla strada per Roma. Il ponte di barche, comunque, si fece. Discreti e pratici, gli antichi romani avevano ancora una volta superato i contemporanei.

Tentativi di gettare il ponte si succedettero senza risultati in età moderna (il pingue Ferdinando II delle Due Sicilie commissionò un progetto nel 1840 vedendolo naufragare per insufficienza di mezzi economici, mentre il ministro dei Lavori Pubblici del Regno d’Italia Giuseppe Zanardelli intraprese un progetto nel 1876, parimenti fallendo nella realizzazione).  L’ingegnere Antonio Calabretta, già artefice dei ferry boat che lasciarono tracce indelebili nella letteratura del XIX secolo (si pensi solo a Stefano D’Arrigo e ai ferribotti ripresi fa da Pietrangelo Buttafuoco sul Fatto Quotidiano), presentò nel 1934 un progetto di Ponte che la virile Italia fascista non seppe portare a compimento – il Duce era d’altronde un ottimo nuotatore. Si giunge così all’evo contemporaneo che vide la costituzione di una società concessionaria per la realizzazione, la Ponte sullo Stretto spa, nel 1981. Compartecipavano delle quote la Regione Siciliana e la Regione Calabria, oltre che l’ANAS e l’IRI e le Ferrovie dello Stato. Milioni buttati a mare, letteralmente ed anche letterariamente. Perché, lo ricordava sempre Buttafuoco citando Angelo Musco,“lo Stretto è largo”. E nella sua stretta larghezza si infransero gli antichi e i moderni, e Berlusconi di cui abbiamo già detto e Monti che sospese il progetto e pagò le penali e pure Renzi… no, Renzi no. Fiducia, ci vuole.

In compenso, pagine memorabili si sono scritte sul Ponte, e continueranno a scriversi finché finalmente, prima o poi, la cosa sarà fatta. In teatro, Ficarra e Picone hanno dato il massimo nello sketch sul tema (Picone: «Ai tempi di Garibaldi il ponte non c’era!» Ficarra: «Eh! Ma già se ne parlava però!»), mentre in televisione Fabio De Luigi alias l’ingegner Cane si preoccupava del peso delle cravatte di coloro che avrebbero inaugurato l’opera («Magari viene uno con la cravatta di lana e si fa la figuraccia»). Antonio Albanese, costruttore abile di stereotipi siculo-calabresi avvertiva che «… dati alla mano, la cosa peggiore, ma proprio peggiore che può succedere, è che il Ponte crolli. …Solo questo va’…», mentre uno che comico non è, il sindaco di Messina Renato Accorinti, chiosa l’ottimismo del premier con la seguente battuta: «Ponte sullo Stretto? Renzi dice che lo farà dopo le altre opere essenziali per il Meridione… Se crede alla reincarnazione allora possiamo parlarne». Resta il fatto che finora è più credibile l’idea di convincere centoquaranta elefanti a passare su un ponte di barche piuttosto che quella del Ponte propriamente detto. Ma c’è un dettaglio: Lucio Cecilio Metello concluse la sua carriera con la carica di pontifex maximus. E viene voglia di spedire una cartolina a Papa Francesco perché ci pensi lui.