Strage di Orlando. In breve, abbiamo Obama che, parlando alla nazione, commenta l’accaduto senza mai nominare l’ISIS (che pure ha rivendicato l’attacco e a cui Omar Mateen, il responsabile dell’orrore, aveva giurato fedeltà, come confermato dal Capo della polizia, John Mina). Abbiamo un killer interpellato già tre volte dall’FBI (ma che girava libero) e suo padre, che nega il figlio fosse animato da fondamentalismo (ma sul web lui, il padre, simpatizza per i talebani). Ed abbiamo pure politici italiani, dulcis in fundo, che invocano leggi contro l’omofobia (ma poi elogiano come «riformatore» il Presidente dell’Iran, Paese dove, secondo l’art. 233 del Codice Penale, ai gay vanno 99 frustate).
Che brutta fine ci stanno facendo fare, signori, politicamente corretto e islamofilia. Siamo pronti – come Occidente – a minimizzare ogni elemento che ricordi i rischi dell’immigrazione (Mateen era di origine afgana), e anche gli orrori del terrorismo (la cui matrice islamista viene minimizzata ai limiti del surreale), pur di non ammettere che qualcosa, nel nostro gioioso festival multiculturale, sta andando storto. Certo: la strage di Orlando non è purtroppo la prima che avviene negli Usa; e non è che per compiere orrori simili occorra essere simpatizzanti dell’ISIS (Breivik dice niente?). Ma proprio per questo non si capisce la fretta di nascondere la realtà che sta dietro questi 50 morti: o meglio: la si capisce fin troppo bene.
Il che ci fa ammettere che, se questa è una guerra, l’abbiamo già persa senza combatterla: perché non possiamo – se non vogliamo passare per gente di cattive letture – riconoscere di avere un nemico; perché ci vendono la frottola che, in questi e altri casi, la colpa è delle «armi facili» (e poco importa che qui il mostro fosse un vigilante, e una rapida analisi basta e avanza a far a pezzi il presunto legame fra diffusione delle armi e numero di omicidi); perché ci viene continuamente ripetuto che il problema son loro, i lerci populisti, i mercanti della paura, e tutto il resto è un mondo che, in fondo, non vede l’ora di abbracciarsi, che l’immigrazione è una manna e il terrorismo islamista solo una scheggia impazzita.
Sarei tentato di dire, alla luce di quanto ricordato, che ciao, siamo una civiltà spacciata, ma non lo farò. Preferisco dare una chance alla Speranza e soprattutto alla possibilità che si arrivi presto a comprendere anzi a riscoprire come Patria, Identità e Cristianesimo non siano parolacce o clave, ma ingredienti essenziali e interdipendenti rimossi i quali a noi occidentali resta ben poco, e come controllare e all’occorrenza limitare l’immigrazione non equivalga ad odiare alcuno, bensì solo ad amare il proprio Paese dato che – come ricorda Régis Debray nel suo Eloge des frontières, esiste anche, per ogni popolo, un «diritto alla frontiera, per far fronte agli scivoloni mortali del va bene tutto, tutto si equivale, dunque nulla ha valore».
Del resto, l’alternativa a questa urgente riscoperta dei valori fondamentali è continuare come si sta facendo, spettatori coi paraocchi una tragica realtà della quale, almeno in parte, siamo ubbidienti complici senza però che questo ci scuota minimamente: dunque, oggi tutti gay, domani tutti immigrati, e dopodomani, chissà, di nuovo tutti Charlie, in un pazzesco cortocircuito buonista. L’alternativa, insomma, è campare da struzzi, non vedere o meglio ostinarsi a non vedere facendo le pulci ai modi poco urbani con cui altri, forse meno ingessati, denunciano l’avanzare del Caos. Ora, sinceramente a me questa alternativa – ancorché strombazzata dai media e benedetta dal gregge degli intellettuali presentabili – proprio non piace. A voi?