Mi avessero detto che un giorno avrei scritto della seconda più grande kermesse cinematografica d’Europa senza uno straccio di film italiano a dare senso e orgoglio al mio pezzo, e mi avessero detto che no, stavolta Italia non ce n’è ma non è poi così male, abbiamo film nelle prestigiose Quinzaine des Réalisateurs e Un Certain Regard ed anche una proiezione speciale di Marco Bellocchio a titillare la nostra grandeur, e mi avessero detto queste e altre cose per farmi dimenticare un’Italia protagonista nel cinema come nelle altre sei arti e sette muse, nonostante il presidente Renzi accolga a Palazzo Chigi cinque registi italiani premio Oscar per vidimare l’ectoplasmatico ddl Franceschini sul cinema, insomma, mi avessero significato tutto ciò confesso che il mio non crederci sarebbe stato dettato più dal campanilismo che da una oggettiva analisi dei fatti. Ecco l’analisi: il cinema italiano sta puzzando, in senso generale, sta incancrenendo, in senso particolare. La decomposizione ha poi un suo fascino fermentativo e alcolico, e da lì vengono l’Oscar a “La grande bellezza” e altre amenità post-coitali di registi e attori e produttori – gli ultimi quasi sempre stranieri – dopo la consegna del premio. Ma è morto di parecchi giorni, e puzza, e talune toppe malamente cucite dal governo non fanno che certificare questo dato di fatto. Pallor mortis, algor mortis, rigor mortis.
Ma insomma tocca parlarne perché oggi, nella blindatissima città francese, si apre il Festival di Cannes. Durerà fino al ventidue maggio con la consegna dei vari premi e per carità, carne al fuoco ce n’è. Si incomincia con la proiezione dell’ultimo Woody Allen, “Café Society”, una storia di ebrei (‘na cosetta nova) che dalla New York degli anni Trenta decidono di partire alla volta di Los Angeles per tentare la fortuna nel cinema. Non c’è il tipico carretto di attori che in genere accompagnano i film del maestro, e non c’è nemmeno il maestro: da vedere, per constatare almeno fin dove potrà spingersi il brand Allen, visto che il detentore del marchio veleggia verso le ottantuno primavere. La selezione ufficiale in concorso, non è il caso di ribadirlo, accoglie film filippini (“Ma’Rosa”, regia di Brillante Mendoza), romeni (“Bacalaureat”, regia di Cristian Mungiu) e iraniani (“Forushande”, regia di Asghar Farhadi), ma per un curioso contrappasso nei confronti del paese europeo con più badanti non ospita film italiani (il vecchio, lo dicevamo, è morto). Fiori all’occhiello del concorso sono senza dubbio Sean Penn (“The Last Face”) e Pedro Almodovar (“Julieta”), mentre i padroni di casa schierano Olivier Assayas (“Personal Shopper”), Alain Guiraudie (“Rester Vertical”) e Nicole Garcia (“From the Land of the Moon”). Notevoli anche i fratelli Dardenne (“The Unknown Girl”) e il giovane Xavier Dolan (“Juste la fin du monde”). Il resto è meno notevole, ma il ballo delle debuttanti che è Cannes è interessante anche per questo: dovesse vincere l’incompreso cineasta tibetano, ognuno di noi si sperticherebbe a lodarne la capacità di entering non meno che la produzione precedente (fosse anche in indocinese giammai sottotitolato).
Le selezioni fighette, invece, ospitano in due tre film italiani (anche così, che predominio!). La Quinzaine des Réalisateurs vede il solito Paolo Virzì con “La pazza gioia”: le protagoniste sono due matte le quali stringono amicizia (solo amicizia, a quanto pare) e cercano di fuggire dal manicomio. Protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. A fianco di Virzì il romano Paolo Giovannesi con “Fiore”, produzione italo francese. Un Certain Regard proietterà invece “Pericle il nero” di Stefano Mordini, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Ferrandino. Il protagonista, un esattore della mafia aduso a metterlo fisicamente in quel posto a chi non paga, sarà interpretato da Riccardo Scamarcio che del film è anche produttore con RAI Cinema. Su questi tre pilastri, dunque, poggerebbe l’onore dell’italica stirpe se ai morti (gente seria) importasse dell’onore. Sappiano Virzì, Giovannesi e Mordini che in caso di vittoria in qualunque premio una telefonata di Renzi per congratularsi di aver tenuta alta la bandiera italiana – mentre lui sega l’asta, sia detto con rispetto – non gliela toglie nessuno. E giù a twittare complimentoni alla cultura italiana che, si sa, è la priorità prima prioritaria del nostro acculturatissimo governo.
Questa, attenzione, è solo la nostra opinione. C’è chi dirà che sia prestigioso ed esclusivo che alcune pellicole italiane siano entrate in selezioni dedicate al cinema d’autore, e non direbbero il falso. Resta la nostalgia per il chiassoso baraccone popolare e all’italiana che un tempo avevamo messo su: per una simpatia indipendente dal piano e dal lungo piano, per vocii di mercati e mignotte e poliziotti e situazioni accese che non sfiguravano nemmeno alla notte degli Oscar (quando la notte degli Oscar era una cosa seria); per registi rabdomantici la cui propensione al racconto lasciava il finale aperto, e questo è socratico non meno che manzoniano, narratore interno ed esterno coincidono come sapere e non sapere (oppure se ne vanno al diavolo, che noi avevamo il conte Mascetti e oggi c’è Pericle); per spettatori che interrogando il richiedente mano della loro ultima figlia domandavano per prima cosa un giudizio su “La dolce vita”; per una cultura del cinema maccheronica e spicciola, forse, ma che accadeva di potere raccontare, di inserire in conversazioni, di stapparci bottiglie di vino. E che il mondo ci invidiava e premiava, tentando invano di copiarla. Tutto ciò l’Italia a Cannes l’ha portato? Pallor mortis, algor mortis, rigor mortis. La Croce – Quotidiano