Sono bastate la rovesciata su Roma ed il colpo finale del leader a chiarire quanto andava chiarito: di questo passo si è costretti a pensare che Silvio Berlusconi non fa altro che aiutare Matteo Renzi. Ed aiuta Matteo Renzi per aiutare se stesso. Lo fa nel peggior modo, ed il più doloroso, sia per Forza Italia che per se stesso. Ne avremo tutti contezza all’indomani del voto amministrativo di giugno. Guido Bertolaso, che avrebbe potuto certamente essere il miglior sindaco a cui Roma potesse aspirare, sarà mandato al macello. La partita del centrodestra nella Capitale, trasformata in una resa dei conti finale sulla leadership, ha lasciato emergere in modo chiaro ed incontrovertibile le posizioni di ognuno. La convergenza su Giorgia Meloni andava fatta, su questo non vi possono essere dubbi. Come non possono esserci dubbi sul fatto che – sul fronte dei numeri – Forza Italia è divenuta strada facendo meno competitiva rispetto agli anni passati, quindi più debole e assoggettabile agli occhi degli alleati naturali (Lega e FDI). Tutti registrano questo dato, ma nessuno trae – quantomeno pubblicamente – le opportune considerazioni.
Nel 1994 il movimento di Berlusconi nacque in chiave totalmente alternativa alla sinistra di Achille Occhetto e del Partito Comunista. Ed è sempre stato nei piani del fondatore quello di dare vita, strada facendo, ad un partito unico che mettesse dentro tutti coloro che si ritenessero alternativi alla sinistra. E a rigor di logica, se sei alternativo alla sinistra dovrai dirti di destra. Ed è qui che casca l’asino. In una lettera scritta due giorni fa a IlGiornale, Silvio Berlusconi ha chiarito due cose: che Forza Italia non è un movimento di destra, ma di centro moderato semmai “alleato della destra”, e che il leader che ne incarna l’idea massima e la sintesi più alta è senza dubbio il suo presidente, cioè egli stesso. Su quest’ultimo punto non si può non concordare: Silvio Berlusconi è il suo movimento politico, senza il quale non avrebbe più vita. Ma la sostanziale “virata” al centro, questa proprio non sta in piedi. E’ un tentativo ultimo e bizzarro di riposizionare il partito all’indomani dello strappo romano. Uno strappo da una parte giustificato dal patto non mantenuto dal duo Meloni-Salvini sul candidato Bertolaso a Roma (candidatura unitaria dapprima sottoscritta dai tre leader e poi rimessa in discussione), dall’altra parte totalmente inconcludente sul piano della opportunità politica: dalla convergenza su Giorgia Meloni, infatti (una convergenza per costrizione, dato che tutti i sondaggi la danno in netto vantaggio su Bertolaso), il centrodestra avrebbe avuto solo da guadagnare. Al contempo avrebbe messo in campo una alternativa altamente competitiva su Roma ed in più avrebbe messo in chiaro che esiste una coalizione vera, e non avrebbe servito su un piatto d’argento Roma a Renzi e a Grillo, che certamente disputeranno al ballottaggio in occasione del voto capitolino.
Berlusconi ha preferito virare verso i non meglio definiti “moderati”, lasciando i “lepenisti” di destra in solitaria. Compiendo almeno due errori. Il primo: in Italia, semmai fossero esistiti, i “moderati” hanno già da tempo lasciato il posto da un lato ai disgustati dalla politica, ai delusi, a chi infine si astiene dall’andare a votare (ed oggi sono drammaticamente circa il 50% degli aventi diritto). Dall’altro lato agli “incazzati”, che hanno irrimediabilmente ingrossato le percentuali della Lega di Salvini e del partito di Giorgia Meloni. Quindi altro che moderati, qui siamo allo sfascio più totale del fronte del centrodestra, disperso nell’enorme bacino dell’astensionismo e della destra ideologica e nazionalista. Attenzione: una destra che in tutta Europa è avanti nei sondaggi e che vince competizioni elettorali una dopo l’altra. Come in Francia il Front National di Marine Le Pen raggiunge percentuali da capogiro, in Austria l’estrema destra del Partito della Libertà (FPO), che vola oltre le più rosee aspettative, si attesta come prima forza politica al 36,7% vincendo le elezioni. Quindi, se Berlusconi intende ricomporre le fratture con Alfano, Casini, Verdini e Fitto, con l’idea di rimettere in piedi “I Repubblicani” (vale a dire il PPE italiano), magari in chiave collaborazionista con Renzi, si accomodi pure. Ma lo faccia consapevole del fatto che così facendo molti dei suoi elettori storici alle prossime elezioni potrebbero (e siamo generosi) segnare un altro simbolo. E un altro leader.