E adesso parliamo del Referendum. Solo adesso, sì – gli altri giornali hanno iniziato da settimane a proporre articolesse, ognuno con la propria posizione ben chiara – perché oggi, con le dimissioni della ministra Federica Guidi sul tavolo del premier Renzi (la Guidi è stata intercettata mentre dava al compagno indicazioni sulle manovre del governo in merito a concessioni petrolifere in Basilicata), è definitivamente chiaro da che parte stia l’esecutivo. Dalla parte dei trivellatori, per dirla semplice, cioè dalla parte di tutte quelle imprese che nel business del petrolio, a vari livelli, ci sono dentro fino al collo e non vogliono lasciar perdere l’affare. E che al rinnovo delle concessioni sugli stabilimenti in mare entro le dodici miglia – periodo naturale trent’anni, rinnovo di dieci più rinnovi lustrali fino a esaurimento dei giacimenti – ci tengono particolarmente.
Freedom24, tuttavia, non intende offrire al lettore la propria opinione sul tema (come la pensiamo sarà del resto intuibile dall’hashtag che accompagna questo articolo), né un’indicazione di voto. Questo, ripetiamo, lo hanno fatto fin troppo gli altri giornali e un foglio che voglia fare informazione dovrebbe limitarsi a nostro avviso a dare informazioni, senza interpretarle in maniera parziale. Una premessa va però fatta: quello che troviamo assolutamente positivo è il ricorso allo strumento referendario in sé, poiché questo paese da troppi anni soffre di un deficit democratico che può essere infranto solo con il ritorno a una vera, grande e sentita consultazione – anche se abrogativa, nel caso di specie: di primarie, sondaggioni online e tavole rotonde la democrazia muore.
Un precedente: il referendum del 2011
Il referendum del 2011, per esempio, fu un grande momento di partecipazione democratica per il nostro Paese, e il suo effetto fu determinante per stoppare il nucleare cui il governo Berlusconi stava riavviando l’Italia. In quel caso, certo, giocò molto il fattore Fukushima: ovvero l’incidente che in Giappone mise a nudo le debolezze strutturali del sistema di produzione nucleare d’energia, fungendo da monito per tutto il mondo. Nazioni come l’Italia, la Germania (nel 2022) e il Belgio (nel 2025) rinunceranno definitivamente a un progetto obiettivamente troppo rischioso. Forse anche nel caso del referendum abrogativo del 2016 alcuni incidenti potrebbero fungere da monito: ma su ciò – ripetiamo – lasciamo al lettore ogni considerazione di merito. Ci interessa portare notizie, senza interpretarle. (La premessa resta tuttavia valida: il nostro Governo sta dalla parte dei petrolieri e il referendum è di per sé cosa positiva e auspicabile. Detto questo veniamo alle argomentazioni vere e proprie).
Il referendum del 17 aprile incombe e ancora non si è capito su che cosa stiamo andando a votare, quali conseguenze avrebbero i risultati della consultazione e come (e perché) questi risultati potrebbero cambiare le nostre vite. Come sempre in Italia i cittadini sono chiamati a intervenire su temi già ampiamente all’ordine del giorno in molti altri paesi, secondo un ritardo storico-infrastrutturale (le “trivelle” sono infrastrutture energetiche vere e proprie) che accompagna la nostra nazione da un secolo e mezzo. Ciò per dire che già in altri luoghi d’Europa il tema della sicurezza e opportunità dello sfruttamento a mare di concessioni petrolifere o di gas si è già posto con drammaticità: i casi più recenti sono quelli della Croazia e del mar Caspio, ma anche di Lampedusa, dove gli stabilimenti hanno provocato non pochi danni al vaglio di associazioni ambientaliste come Greenpeace. Ed è anche vero, come ricorda il fronte del NO, che sono già in atto trivellazioni lungo le nostre coste, e da anni, motivo per il quale sembrerebbe poco lucido evitare di rinnovare alcune concessioni a fronte del lavorio che ai nostri confini non accenna a diminuire. Questo il quadro nel quale i cittadini italiani, nella più totale confusone, si apprestano ad andare a votare.
Su che cosa andremo a votare
Il quesito, ce lo ricorda l’Espresso, dovrà decidere «se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, cioè più o meno a 20 chilometri da terra, debbano durare fino all’esaurimento del giacimento, come avviene attualmente, oppure fino al termine della concessione. In pratica, se il referendum dovesse passare – raggiungere il quorum con la vittoria del sì – le piattaforme piazzate attualmente in mare a meno di 12 miglia dalla costa verranno smantellate una volta scaduta la concessione, senza poter sfruttare completamente il gas o il petrolio nascosti sotto i fondali. Non cambierà invece nulla per le perforazioni su terra e in mare oltre le 12 miglia, che proseguiranno, né ci saranno variazioni per le nuove perforazioni entro le 12 miglia, già proibite dalla legge».
Le ragioni del fronte del SI e quelle del NO
Le attività di trivellazione, insomma, sono già in corso nel mare italiano, e fermarle appare una sorta di capriccio: il fronte del NO sostiene che si tratti né più né meno che di un pretesto per mettere i bastoni tra le ruote all’industria energetica italiana. A ciò, tuttavia, il SI risponde che le concessioni producono una parte limitatissima del fabbisogno energetico del nostro Paese (le percentuali arrivano allo zero virgola se si parla di gas), che in buona parte, lo sappiamo, continua a compare energia da altri stati sovrani come la Russia. Sospendere le trivellazioni prima della scadenza del giacimento, quindi, non ci costringerebbe ad andare col il cappello in mano dai russi: già lo facciamo. Inoltre alcune fonti – raccolte da Greenpeace – ci dicono che il 73% degli impianti di estrazione già in essere all’interno delle dodici miglia sarebbe da smantellare per raggiunti limiti d’età: risulta perciò difficile capire come gli stessi impianti potrebbero andare incontro al rinnovo decennale (e poi lustrale fino a esaurimento) dei giacimenti già esistenti. A ciò il fronte del NO risponde con la possibilità di investimenti statali: altrettanto semplicemente si potrebbero però indirizzare questi fondi (ad imprese private) in direzione delle energie rinnovabili di cui l’Italia potrebbe morfologicamente fare larghissimo uso.
Ridurre/disincentivare le trivellazioni entro le dodici miglia, quindi, non comporterebbe aumenti esponenziali per la spesa energetica nazionale. La manodopera specializzata che lavora in questi impianti potrebbe essere riallocata in altro tipo di industria energetica evitando così la perdita di posti di lavoro preventivata dal fronte del NO. Viceversa, i danni anche in termini di lavoro che una cattiva gestione delle concessioni potrebbe portare al comparto del turismo e della pesca, sostiene il SI, sarebbe grave e irreparabile (un pescatore difficilmente troverà un altro impiego in una fabbrica, così come un bagnino). Non risulta, prosegue il SI, che le concessioni già in uso abbiano portato grandi benefici in termini di raccolta fiscale nelle regioni italiane sottoposte alle trivelle. Men che meno nella Regione Siciliana, la quale dovrebbe beneficiare direttamente delle tasse pagate da questi impianti e invece vi rinuncia a causa della non-applicazione dello Statuto Speciale. Le trivelle inoltre producono – anche se non dovessero danneggiare direttamente il mare e la biodiversità specifica dell’Adriatico e del Mediterraneo – un danno oggettivo alla bellezza dei luoghi costieri italiani: solo per fare un esempio, le crociere evitano di passarci modificando le loro rotte.
Alcuni fatti oggettivi
Aldilà dei numeri e delle percentuali, spesso senza fonte, circolati nelle ultime settimane in merito alla questione delle trivelle, tre dati di fatto rimangono evidenti, e vengono così riassunti dal FAI – Fondo Ambiente Italiano:
- Non strategico perché non è prioritario per l’Italia investire nelle energie fossili. L’Italia del futuro dovrà saper integrare risorse diverse, promuovendo ricerca e sviluppo delle fonti energetiche alternative e incentivando risparmio ed efficienza energetica a partire dal comportamento e dal consumo dei cittadini e dello Stato.
- Non è conveniente perché con il valore del petrolio, che è ai minimi storici, non è più vantaggioso estrarre e vendere petrolio soprattutto in Italia dove i giacimenti sono esigui e il petrolio di scarsa qualità. Se infatti estraessimo tutto il petrolio presente nei giacimenti in mare potremmo coprire 10 settimane nei nostri consumi annui.
- Non è sostenibile perché le trivellazioni entro le 12 miglia comportano un grande impatto sull’ecosistema marino e sul paesaggio costiero. Sarebbe importantissimo poter disporre di un piano che consenta di mappare le aree più rilevanti e più delicate da escludere da un’attività così invasiva.
Conclusione
Questi gli argomenti attualmente sul tavolo dall’una e dall’altra parte. Agli elettori, adesso, il compito di sfruttarli secondo coscienza nelle urne il 17 aprile. Perché, questo vogliamo ribadirlo, la partecipazione al referendum è l’unica strada per riprendere almeno in parte quella sovranità alla quale sembra che il Belpaese – che se si chiama Bello ci sarà un motivo – abbia rinunciato. “Ma se il referendum passa il quorum vincerà certamente il SI!”, è il ragionamento politico. Pur ribadendo di non voler dare indicazioni di voto al lettore, noi siamo pronti a correre il rischio.