“L’OLIMPO DI CAMILLA” – Tatuaggi: l’irresistibile bisogno di firmare la pelle

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di Federica Camilla Parenti

La storia del tatuaggio ha radici millenarie e vanta una tradizione che si estende oltre i confini europei. Quell’ornamento che ci persuade della nostra unicità racchiude in sé un prezioso significato antropologico: il superamento di un lutto, una dichiarazione di indipendenza, una prova d’amore, l’appartenenza a una comunità, l’adesione a un credo, il passaggio all’aldilà. Il messaggio nascosto in un tatuaggio dice molto dell’individuo, dietro il segno indelebile si cela una storia. Non solo una funziona estetica e decorativa: il culto assurge a funzione terapeutica sin dalle origini. Dalla ritualistica delle culture antiche all’integrazione nella cultura mainstream, la sua evoluzione lo rende forse la più versatile delle arti popolari, che oggi – come allora – è rivelatrice della propria identità, al punto da diventare un must.

Il termine tatuaggio viene coniato per la prima volta a metà del Settecento, come derivato dalla parola tahitiana tatau, ovvero “incidere, decorare la pelle”. La sua inclusione nei dizionari la si deve all’inglese James Cook, esploratore che arrivato a Tahiti, si propone di annotare tra i suoi appunti le usanze del popolo autoctono. La sonorità dell’espressione (tau-tau) ricorda il suono del picchiettio del legno sull’ago usato per l’incisione. Tuttavia, le inconfutabili testimonianze della sua esistenza risalgono all’età della pietra.

Nel 1991, il ritrovamento del corpo congelato e perfettamente conservato di un uomo vissuto circa 5300 anni prima ne attesta le tracce fin dalla Preistoria. Siamo nel confine alpino italo-austriaco, sulle Alpi Oztalet, dove una mummia – la Mummia di Similaun – viene riportata alla luce e sottoposta ai raggi X, che rivelano dell’incredibile: l’integralità del corpo è cosparsa di tatuaggi, frutto di incisioni verticali della cute su cui è stato fatto sfregare del carbone per lenire i dolori provocati dalle degenerazioni ossee.

Con il passare del tempo però, e a seconda del luogo in cui si diffonde, il tatuaggio perde la sua valenza terapeutica e assolve ad altre funzioni. Alcune pitture funerarie rinvenute in Egitto – e il ritrovamento di mummie risalenti al 2000 a.C. – ne documentano l’usanza tra le comunità femminili, in particolar modo quella delle danzatrici, i cui corpi sono contraddistinti da simboli di bellezza e fertilità. Nella comunità celtica sono gli animali a “ricamare” la pelle, in segno di devozione a pesci, uccelli, gatti, cinghiali e tori, considerati sacri.
Per i Greci e i Romani il corpo rappresenta un involucro sacro e inviolabile, e la marchiatura è destinata a criminali e condannati; solo in seguito agli scontri con le popolazioni britanniche – che sono solite tatuarsi per onorare i propri valori – il tatuaggio viene preso a modello di prestigio e coraggio, e lo spirito di emulazione spinge i condottieri di Roma a incidersi la pelle. Tra i Cristiani vige l’usanza di ostentare la propria fede segnando la fronte con la croce del Cristo; il rituale viene abolito nel 787 d.C., quando Papa Adriano proibisce l’uso del tatuaggio, che rifarà la sua comparsa tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo, in occasione delle Crociate: la croce di Gerusalemme garantisce una degna sepoltura in caso di morte in battaglia.

Con l’estinguersi delle Crociate la diffusione del tatuaggio in Europa subisce una battuta d’arresto, mentre prolifera nei territori oltreoceano. Sappiamo che intorno al 1700 le popolazioni indigene del Centro e Sud Pacificotessono rapporti con i marinai d’Europa, le testimonianze  rivelano dettagli sul culto: si narra di una conchiglia affilata cui è attaccato un bastoncino. In Nuova Zelanda è il popolo dei guerrieri Maori a perpetuare la tradizione dell’incisione sulla faccia, chiamata moko; e la testa di questi combattenti è talmente pregiata al punto di essere commercializzata dai venditori di schiavi nella prima metà dell’Ottocento, in cambio di armi.

Un’attenzione particolare merita il Giappone, dove la sua presenza è attestata a partire dal V secolo a.C., a fini terapeutici, estetici, magici, e per bollare la criminalità. Qui i tatuaggi nascono come reazione a un’antica legge che proibisce alle classi sociali di basso rango di fare uso di kimoni decorati. E la risposta dei più sovversivi non tarda ad arrivare: i membri di questa classe sociale si oppongono al precetto, scegliendo di tatuarsi la quasi totalità del corpo, nascondendo quei segni sotto i vestiti. Una pratica arginata dal governo giapponese, che nel 1870la dichiara illegale, pur non riuscendo a estirparla; tant’è vero che i membri della Yakuza – la mafia locale – ne fanno il tratto distintivo della famiglia patriarcale. Il tatuaggio diventa espressione di un conflitto interiore, di una qualità da esibire

In Occidente, il tatuaggio torna in auge nei primi decenni del Novecento, a seguito dell’invenzione – nel 1891 – della prima macchinetta elettrica per tatuare, che porta la firma del newyorkese Samuel O’Reilly. Questa data segna una svolta per la sua storia, la cerimonia diventa più rapida e indolore. Tuttavia, se per un breve periodo del secolo scorso esso ha fatto la fortuna dei circhi americaniche per assicurarsi il successo reclutano personale tatuato da capo a piedi, per oltre cinquant’anni diventerà il segno di alcune minoranze ridotte ai margini della società: malviventi, marinai e veterani di guerra, tacciati di disordine mentale. Tra gli anni Settanta e Ottanta il tatuaggio diventa il simbolo della lotta ai precetti morali di un rigido Conservatorismo, oggi la sua valenza semantica è legata all’estetica.

Quali che siano le ragioni che sottendono la scelta di “ricamare” la pelle, la sua epopea lo rende un’arte millenaria degna di un successo di massa planetario, a dispetto di chi lo considera il marchio dell’infamia.