di Federica Camilla Parenti – “L’OLIMPO DI CAMILLA”
È noto che i bambini siano dotati di una predisposizione innata per l’apprendimento delle lingue. Al pari di una spugna, i più piccini sono in grado di imparare qualsiasi idioma grazie alla plasticità cerebrale che, fino a sei mesi, consente loro di riconoscere i suoni di un codice, selezionando quelli pertinenti al proprio contesto d’uso. La scienza ha dimostrato che la gestazione è un periodo cruciale per il processo di assimilazione delle strutture primitive del linguaggio: una capacità naturale che il cervello perde dopo il primo semestre di vita.
Cos’è il bilinguismo?
Si parla di bilinguismo quando si registra la compresenza di più lingue entro un singolo o una comunità in cui due lingue sono riconosciute come ufficiali. È il caso, per esempio, di alcuni paesi in cui si parla il francese – come il Belgio – o della Valle d’Aosta. Molte sono le ragioni che spingono alcuni genitori a crescere i propri figli in un ambiente bilingue: tra queste, la provenienza da altri paesi o la scelta – talvolta l’esigenza – di vivere in un ambiente internazionale, piuttosto che il quartiere in cui si stabilisce la residenza. Dietro la scelta di una seconda lingua vi sono fattori come età, tempo di esposizione alla stessa, nonché il suo statuto nel paese di adozione. In questo quadro, la motivazione riveste un ruolo fondamentale, poiché il bisogno di conoscere un idioma diverso da quello d’origine spesso fa rima con sopravvivenza.
Anzitutto, è bene distinguere tra bilinguismo simultaneo e bilinguismo sequenziale o successivo: nel primo caso, il bambino familiarizza con più codici contemporaneamente fin dalla nascita o nella prima infanzia; in caso di bilinguismo sequenziale viene esposto alla seconda lingua dopo avere consolidato quella nativa. Una palestra per il cervello, alla base del quale coesistono quattro pilastri che concorrono al processo di acquisizione: quantità e qualità espositiva, varietà di stimoli e valorizzazione dei linguaggi.
Coltivare il bilinguismo fa bene alla mente, vediamo perché. Tanto per cominciare, migliora l’abilità comunicativa, stimola la curiosità e la comprensione interculturale. Inoltre, favorisce l’apertura mentale nel bambino, che finisce per integrare più visioni della realtà, adottando un approccio elastico verso il mondo; questo gli permette di crearsi un’identità precocemente e di sviluppare alcune abilità cognitive come il pensiero creativo e la manualità. Non solo, il passaggio frequente da un codice all’altro (code-mixing) gli consente di sfruttare al meglio le proprie risorse: una buona padronanza della lingua madre è garanzia della dimestichezza con la lingua appresa in un secondo tempo, al nido o a scuola. Infine, il bilinguismo potenzia l’attenzione, l’abilità di astrazione e la flessibilità. E non dimentichiamoci il passe-partout nel mondo del lavoro: un candidato bilingue è più competitivo agli occhi del selezionatore, più empatico e rispettoso delle differenze.
E per coloro che si stanno chiedendo se all’origine del disturbo del linguaggio possa esserci il multilinguismo, la scienza ha risposto negativamente, sostenendo che parlare più lingue non è causa del disturbo primario del linguaggio. Certamente, sarebbe opportuno favorire l’esposizione alla lingua d’origine attraverso il gioco, diversificando al massimo le risorse ludiche – libri, film, radio, programmi – gli interlocutori e i contesti: sì alla costituzione di piccoli centri di aggregazione, comunità, biblioteche, nidi familiari in cui l’opportunità di entrare in contatto con la minoranza diventa l’occasione di riscoprire l’attaccamento alle proprie radici.