In tempi di Covid non tutti stringono la cinghia. I dipendenti statali con contratto a tempo indeterminato, come si sa, hanno retto meravigliosamente il colpo: datore di lavoro puntuale e solvente (almeno finché c’è chi sottoscrive i titoli del debito pubblico), stipendio non decurtato e possibilità di fare quello «smart working», presunto lavoro intelligente, che, come ha detto l’economista Pietro Ichino, è stato in realtà, per molti di loro, «una lunga vacanza pressoché totale, retribuita al cento per cento». E in cima alla loro piramide ci sono i più privilegiati, bravi o fortunati (dipende dai casi) di tutti: gli alti e altissimi dirigenti pubblici, incaricati di mandare avanti le amministrazioni centrali.
Spesso (specie di questi tempi) costoro sono di gran lunga più capaci dei loro referenti politici, i quali se li tengono in palmo di mano. Come dice l’anonimo capo di gabinetto nel libro Io sono il potere di Giuseppe Salvaggiulo, «noi non siamo rottamabili. Chi ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E s’è fatto male». Ragionamento che vale per tutti i mandarini della pubblica amministrazione italiana. Un grand commis che ti risolve problemi vale oro, a maggior ragione se a pagarlo non sei tu, ma il contribuente. Regola che Giuseppe Conte conosce bene e non ha problemi ad applicare. Così il premier che in Europa si presenta col piattino in mano sta per far piovere sui 242 dirigenti di palazzo Chigi un aumento poco in sintonia col clima di miseria e mestizia che avvolge il resto del Paese, e soprattutto con la situazione di coloro che lavorano (o lavoravano, prima di perdere il posto a causa dell’epidemia) nel settore privato. Liberoquotidiano