Da che parte è il «centro»? Lo sceneggiato politico italiano mostra sempre qualcosa di paradossale, magari è solo una scena, una fotografia, un particolare che vivi come normale e invece un po’ dovrebbe stupirti.
Ecco, come a Catania, lì sul fronte del porto, dove si svolge il processo a Matteo Salvini. Accade questo. Conte, Di Maio, Toninelli che al tempo della nave Gregoretti erano con lui al governo fanno finta di non conoscerlo e sperano di cancellarlo dalla ) memoria. L’opposizione invece fa di Salvini un simbolo. Il leader leghista come sintomo, e vittima, di una democrazia malata, dove il confine tra politica e giustizia è sempre più sottile. È chiaro, si dice, Berlusconi, Tajani e la Meloni sono il centrodestra. Sono gli alleati storici di Salvini. Cosa c’è da stupirsi? C’è che il primo governo Conte sembra non essere mai esistito, una sorta di contropassato prossimo, una linea temporale diversa rispetto a quella che stiamo vivendo. È quello che in letteratura viene battezzato come ucronia. In politica invece prende un altro nome. È ipocrisia e scarso senso di responsabilità. È prendere per i fondelli i propri elettori. Conte, in pratica, sta rinnegando il proprio passato.
Se c’è una parola da evocare in questo periodo è consapevolezza. Bisogna riconoscere che in questo momento il centrodestra la sta usando. Non finge. Tutti e tre i partiti hanno capito che non possono rincorrersi a chi alza di più i toni. Devono fermarsi un attimo e riflettere. Il tempo da qui alle prossime elezioni politiche è tanto. È necessario dare un senso all’alleanza. Cosa si intende per centrodestra? Quali sono i punti di incontro? Cosa succede con una legge elettorale proporzionale? Il rischio è farsi concorrenza senza esclusione di colpi. Ci si strappa consenso all’interno dello stesso quartiere. Le differenze diventano più forti delle affinità. L’alternativa è costruire un grande «partito conservatore» che raccolga al suo interno più anime. Non è affatto facile. Berlusconi ci riuscì in parte con il Pdl, ma era un’altra stagione, con una leadership chiara, un sistema politico disegnato su due poli e una vocazione maggioritaria. Tante cose sono cambiate da allora.
La tentazione però c’è. È il discorso che sta facendo Giancarlo Giorgetti. Non è soltanto l’idea di spostare la Lega verso il centro. È un discorso più strategico. È chiedere: dove vogliamo andare? Non si può sempre andare avanti mulinando fendenti: «A forza di menare, menare, menare, nessuno ne uscirebbe bene». Il partito finirebbe annientato. Quello che serve è appunto uno sforzo di consapevolezza. «Che ci piaccia o no, l’Europa esiste. L’Europa va dove va il Ppe, e il Ppe va dove va la Cdu tedesca». La rivoluzione della Lega passa anche da Bruxelles. Lì inizia il percorso che può accreditarla di fronte alle cancellerie (non solo) europee non più come partito di opposizione, «anti», ma come forza di governo. Inutile bussare alla porta di Palazzo Chigi se in Europa non si tocca palla.
È un cambio di prospettiva e non è chiaramente a costo zero. Quanti nella Lega la pensano come Giorgetti? Sicuramente nel gruppo parlamentare più di qualcuno c’è. Bisogna però convincere Salvini, che solo pochi giorni fa da Barbara D’Urso sosteneva: «Ho chiesto il voto degli italiani per cambiare l’Europa e la cambio con la Merkel?». Poi ci sono quelli che non hanno alcuna intenzione di passare per moderati. Tra questi c’è Claudio Borghi, che in un’intervista su Huffington Post apre di fatto il fronte anti Giorgetti. «Qualcuno vuole morire democristiano». Per Borghi gli elettori della Lega non stanno certo al «centro». «Abbiamo preso il 34% alle europee e non uno di quelli che ci ha votato voleva un’Italia sottomessa alla Ue. Cosa crede, che il 75% che ha votato Zaia cerchi moderazione?».
Quello che adesso si vede è la spaccatura all’interno della Lega. La mossa di Giorgetti indica però che a destra, rispetto al tirare a campare della maggioranza di governo, si torna a ragionare di politica. Il futuro non è solo una poltrona. IlGiornale