Quando Renzi annunciò le sue dimissioni da segretario del Partito Democratico disse anche che il partito non avrebbe mai fatto un Governo con “gli estremisti”, riferendosi al M5S ed in special modo a Matteo Salvini, il cui confronto precedente la campagna elettorale – e soprattutto a ridosso del voto – è stato aspro e senza esclusione di colpi. Dopo essersi congedato, per molti fintamente, alcuni settori del Pd si sono affrettati nel fare trapelare voci secondo cui invece un punto di incontro con i grillini era possibile trovarlo, che si sarebbe voluto far pesare la condizione di minoranza (ma determinante) in Parlamento per la formazione di qualsiasi asse che tendesse ad escludere il Centrodestra. Poi la nuova marcia indietro: “il 90% del gruppo dirigente è contro l’alleanza”, ha dichiarato il presidente dem Orfini. Tradotto: si è consumato un verosimile ricatto da parte di Renzi nei confronti dei dirigenti Pd, che durante il suo discorso si era spinto nel definire “uomini del caminetto”. Contenuto del ricatto: o fate come dico io, o porto via la maggioranza dei parlamentari democratici dai gruppi di Camera e Senato, riducendo il Pd a poco più che un grappolo di deputati e senatori. Questo perchè da segretario Renzi ha piazzato 9 candidati su 10, poi eletti il 4 marzo, in posizione utile nelle liste del Pd. L’obiettivo, nel peggiore dei casi (poi verificatosi con la debacle nelle urne) era quello di perdere meglio possibile, e risultare comunque determinante in qualsiasi scenario. Da segretario o no.
Ed infatti la linea, al momento, è rimasta quella di Renzi anche dopo Renzi, ribadita alla Direzione Nazionale riunita immediatamente dopo l’ufficializzazione delle dimissioni del segretario: Il vice Maurizio Martina ha infatti messo ai voti la mozione secondo cui il Pd non sosterrà nessun Governo né dei grillini né di Centrodestra: “Hanno vinto M5S e Lega, governino loro. A noi gli elettori ci hanno messo all’opposizione”, fine delle trasmissioni. In barba almeno momentanea agli appelli di responsabilità del Quirinale, che ancora ieri mattina si è fatto sentire per tramite di un messaggio del Capo dello Stato Sergio Mattarella.
Le opzioni adesso diventano diverse, e si prepara il voto dei presidenti di Camera e Senato. E nel frattempo Matteo Salvini, che ha sempre parlato di “Governo politico” e non tecnico, vale a dire un Governo del Centrodestra (che ha 262 parlamentari alla Camera contro i 221 del M5S). Si ammorbidisce anche la posizione di Luigi Di Maio, che diventa più possibilista. In effetti i programmi di Lega e M5S si incrociano in più punti. Ma dell’ipotesi Governo tra grillini e leghisti non è affatto contento Silvio Berlusconi, relegato già ad uno strettissimo e difficile ruolo di co-protagonistadel Centrodestra, sia pure determinante e di peso. Malessere sfumato in un un summit romano a Palazzo Grazioli, residenza romana del leader di Forza Italia, raggiunto ieri in tarda serata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Oggetto: agenda politica e mandato da parte dei leader della coalizione consegnato nelle mani di Salvini per trattare con gli altri movimenti e partiti in vista delle trattative in vista dell’elezione delle presidenze di Camera e Senato. Nella riunione sarebbe emersa una battuta della Meloni verso Salvini: “Perchè non vai tu a presiedere il Senato?”, una condizione che metterebbe il leader della Lega con ogni probabilità nella condizione di essere chiamato per primo da Mattarella per il conferimento dell’incarico esplorativo, solitamente offerto alla seconda carica dello Stato, per provare a formare un nuovo Governo.
Adesso le opzioni sarebbero in realtà quattro. La prima: un Governo politico del Centrodestra, allargato a tutto il Parlamento. Potrebbe partecipare parte del Pd e rimasugli del Centro di ogni ordine e grado. Si arriverebbe forse ad appena 316 parlamentari necessari alla Camera (ne servono circa 50 alla Camera e molto meno al Senato). Non certo una condizione favorevole, specie per il Quirinale che ha tutta l’intenzione di formare un Governo il prima possibile, ma che sia un Governo stabile e credibile in Europa. La seconda: Un Governo Cinquestelle-Pd. Ipotesi scongiurata al momento dallo stesso Pd, ma verso cui Di Maio sembra porsi in totale apertura. Se si trovasse una quadra in tal senso, ai 221 parlamentari del M5S alla Camera potrebbero aggiungersi almeno 105 dei 112 parlamentari attualmente eletti nel Pd, raggiungendo così quota 326 ovvero 10 in più dei 316 necessari per formare una maggioranza alla Camera. E se dovesse servire, a questi 326 potrebbero sommarsi facilmente i 14 di Liberi e Uguali, altrimenti rimasti schiacciati nella posizione di una irrilevante opposizione. La terza: Un Governo M5S-Lega, guidato dai Cinquestelle con una Lega (e Salvini) alla corte dei Cinquestelle che la farebbero da padrone. In questo caso Salvini dimostrerebbe di preferire rompere l’alleanza di Centrodestra (cosa che ha già mostrato a più riprese di non voler fare). La quarta, ad oggi la più probabile: Nel caso in cui si dovesse permanere in una condizione di stallo estenuante, tale da costringere il Capo dello Stato ad una decisione autonoma, tale decisione potrebbe essere quella di un cosiddetto Esecutivo del Presidente, vale a dire un Governo con dentro tutti i gruppi parlamentari di entrambe le Camere. L’Esecutivo avrebbe un solo scopo, cioè quello di realizzare una legge elettorale che porti il Paese alle urne nella prima finestra utile, quindi o novembre di quest’anno o maggio/giugno 2019.