Londra, il terrore e le verità che dobbiamo raccontarci

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di Giuliano Guzzo

Ancora la stessa storia, purtroppo. Sempre un attentato, sempre modalità jihadiste, sempre una falla nella gestione della sicurezza. L’attentato di Londra in sostanza si presenta così, come un copione già visto, come l’ennesima ferita ad un Occidente bendato, che si ostina a non capire. Ricordate? Ci avevano spiegato – incensando Sadiq Aman Khan, il primo cittadino londinese mussulmano e figlio membro di immigrati pakistani – che in fondo l’integrazione è possibile, che è ora di smetterla con l’islamofobia e che il terrorismo con la religione c’entra zero.

Peccato che ora, quella ostinata che risponde al nome di realtà, ci abbia presentato ieri pomeriggio il caso una vettura-ariete e un’arma da taglio, tipico modus operandi jihadista. L’identità dell’attentatore non è ancora nota, ma oltre alle modalità della sua azione – e alla sua data, che riporta alla memoria gli attentati di Bruxelles -, che hanno subito fatto parlare le autorità di atto terroristico, fanno molto pensare, forse più del fatto stesso, le pagine social di Al Jaazera inondante di apprezzamenti, commenti festosi e Allahu Akbar. Questi, dunque, i fatti. E davanti ai fatti, si sa, le chiacchiere stanno a zero. 

D’altra parte, la connessione tra fondamentalismo islamico e terrorismo, a livello planetario, è oggettivamente fuori discussione. Basti ricordare che, dai dati più aggiornati a livello globale, quelli del 2015, sappiamo come le tre realtà maggiori del terrorismo mondiale siano tutte, indovinate, di chiara matrice islamista. Si tratta infatti dell’Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) – con 6.050 vittime -, di Boko Haram – con 5.450 vittime – e dei Talebani, con 4.512 vittime, (cfr. Annex of Statistical Information, Country Reports on Terrorism, 2016, p. 13). Ora, tutto questo qualcosa vorrà pur dire, no? Oppure vogliamo continuare a far finta di nulla, raccontandoci che il problema del terrorismo sono i trafficanti di armi oppure la scarsa integrazione, tesi ridicola già dall’11 settembre, che ebbe come regista l’egiziano Mohammad Atta, uno che prima di sfracellarsi contro le Torri Gemelle di Manhattan conseguì, col massimo dei voti fra l’altro, un dottorato di ricerca in architettura all’università di Amburgo. Credo che molto, anzi moltissimo del radicarsi del fenomeno terroristico origini da questo: dall’incapacità, molto banalmente, di dirci la verità; o meglio, dall’ostinazione nel nasconderla.

Iniziassimo da questo, ammettendo tutti un legame tra settori del mondo mussulmano e cellule terroristiche, faremmo già un passo avanti. Esattamente come un progresso significativo sarebbe quello di riconoscere – senza temere ridicole accuse di razzismo – che l’immigrazione non è sempre un’opportunità, anzi, e che sull’apertura di moschee e centri islamici nessuna chiusura deve considerarsi aprioristica, a patto però che si stabilisca perfettamente chi vi predicherà e in quale lingua, specificando che la galera è assicurata, per molti anni, per chi incita all’odio.

Poi è chiaro che il reclutamento dei “lupi solitari”, ormai, può avvenire anche su internet, indipendentemente dalla presenza territoriale di una rete terroristica organizzata. Tuttavia sarebbe terribilmente ingenuo – per quanto sull’attentato di Londra moltissimo debba ancora essere chiarito – non cogliere il legame che troppo spesso intercorre fra certi ambienti e quei processi di radicalizzazione che possono, nel giro di non molto tempo, portare all’esecuzione di assalti ed attentati, se non di vere e proprie stragi. Dico questo, sia chiaro, non per soffiare populisticamente sul fuoco, ma perché più rimandiamo l’appuntamento con la realtà e più, inevitabilmente, il conto all’apertura degli occhi sarà salato e insanguinato. Preciso anche, per concludere, che il terrorismo islamico e più in generale l’odio contro l’Occidente che questo esprime è in primo luogo conseguenza non di una società non che non ama, ma che non si ama; che non apprezza la propria storia, che quasi si vergogna delle proprie radici, che non prega. La nostra vulnerabilità è infatti, in definitiva, riflesso di una fragilità spirituale prima che identitaria. E quando lo capiremo, sarà senza dubbio un gran giorno.