di Marco Damilano
Anno Zero, alla fine è arrivato, più dirompente di quanto si potesse immaginare. Così avevamo titolato 1’11 settembre noi dell’Espresso , con lo strillo: «Cinque Stelle in crisi, Renzi in calo, centrodestra a pezzi. E la via d’uscita è un ritorno al futuro. Di nome Mattarella». In copertina il disegno di Makkox, l’evoluzione della specie: da Sergio Mattarella a Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi, fino a tornare a Mattarella. Tre mesi dopo, consumata l’ordalia referendaria, il sistema politico italiano è in piena sindrome Woody Allen anticipata allora. Dio è morto, Marx ha fallito, Renzi, Grillo e Berlusconi pure. E anch’io non mi sento molto bene. Non c’è soltanto la tempesta perfetta: un paese senza governo, o con un governo dell’ordinaria amministrazione chiamato ad affrontare tempi straordinari – il collasso delle banche, il ritorno del terrorismo di matrice islamica, la ripresa della tensione internazionale nelle settimane della transizione americana- senza legge elettorale per la Camera e per il Senato, senza possibilità di tornare immediatamente al voto.
Un vuoto di potere in cui si sono infilati l’assalto di Vivendi contro Mediaset, l’agonia di Monte dei Paschi di Siena con lo Stato costretto a offrire garanzie per venti miliardi di euro, le inchieste di Roma sul braccio destro di Virginia Raggi Raffaele Marra e di Milano sull’inquilino di Palazzo Marino Beppe Sala. Come nel 1992-93, hanno aggiornato gli editoriali gli osservatori più pigri, al primo avviso di garanzia a Milano, al tintinnar di manette in Campidoglio, il ritorno in scena del partito dei giudici.
Dimenticando che anche un quarto di secolo fa (il 17 febbraio 2017 saranno venticinque anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa da cui partì l’operazione Mani Pulite) l’azione delle procure fu anticipata dal crollo del sistema, la Repubblica dei partiti, l’aveva chiamata lo storico Pietro Scoppola nel 1991, e dalla rivolta dell’elettorato, in un referendum in apparenza insignificante, per la preferenza unica alla Camera dei deputati. Il remake del 1992-93 non sta nel protagonismo delle toghe, riguarda loro tre, i principali leader politici di questo quarto di secolo.
Venticinque anni fa Silvio Berlusconi era un imprenditore al vertice di un Impero televisivo ma terrorizzato («a volte mi capita di piangere sotto la doccia», confessa),con un’azienda stritolata dai debiti (quattromila miliardi di vecchie lire), trascinato ad affidarsi al manager esterno Franco Tatò «per mettere ordine», pronto a chiedere aiuto alla politica per salvarsi.
Venticinque anni fa Beppe Grillo era un comico estromesso dalla Rai per una battuta sui socialisti,candidato “al Quirinale dal settimanale satirico “”Cuore”” diretto da Mi” “chele Serra, girava i teatri con uno spettacolo in cui alzava un telefono e chiedeva al pubblico di gridare all’interlocutore la sua indignazione con un urlo: fanculo. «Il fanculamento dei” “politici è un mero pretesto per fanculare la gente. Perché è colpa nostra se siamo comandati da questa gente. E i partiti nuovi fanno ancora più schifo di quelli vecchi», spiegava, profetico.
Venticinque anni fa Matteo Renzi stava per finire il liceo, si allenava a esordire in televisione da concorrente alla “Ruota della fortuna” di Mike Bongiorno. In una situazione drammatica, come ha ricordato all’ultima assemblea del Pd: «Sono cresciuto tra i premier indagati per mafia, anche se poi assolti, il lancio delle monetine contro i politici…». Si torna al punto di partenza. Berlusconi è di nuovo in modalità catenaccio, in difesa della sua azienda, si arrocca contro i francesi di Vivendi, aspetta di essere soccorso dalla politica. Grillo, il cui Movimento è candidato a tutto, e non per la provocazione surreale di un foglio intelligente e rim pianto, assapora quanto siano se non schifosi almeno vi schiosi i partiti nuovi, cioè il suo, più di quelli vecchi. E il Renzi sconfitto si muove nel Pd come il concorrente di un quiz show. Scruta la lavagna alla ricerca delle lettere giuste da inserire nella sua strategia. Gioca di nuovo, e come sempre, il tutto per tutto, alla ruota della fortuna.
Tre leader sotto botta. Aggrediti, dall’interno e dall’esterno. Assediati. Circondati. Nel quadro di una crisi di sistema paragonabile solo ad altri passaggi storici: il 1992-93, certamente, ma anche il 2011-2013, quando il governo tecnico di Mario Monti rappresentò e fu vissuto come il capolinea della Seconda Repubblica fondata sul bipolarismo tra berlusconiani e anti-berlusconiani. Con la differenza che in quei momenti l’alternativa sembrava a portata di mano. Nel 1992-93 il Pds di Achille Occhetto, il movimento referendario di Mario Segni, il “partito che non c’è”, come fuchiamato. Nel 2011-2013 il Pdnelle sue varie anime: la Ditta di Pier Luigi Bersani e il rottamatore della Leopolda Matteo Renzi. Previsioni destinate a essere smentite dal voto popolare. Invece della gioiosa macchina da guerra occhettiana, nel 1994 arrivò il Polo di centro-destra di Berlusconi, con la Lega di Umberto Bossi e il Msi non ancora Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Invece dello Squadrone di Bersani, nel 2013 la valanga del Movimento 5 Stelle. E la carta Renzi, rimasta fuori gioco e buona per essere giocata di fronte all’emergenza. In ogni caso c’erano le” “alternative, da pescare a sinistra, a destra, nell’indefinito campo dell’antipolitica. Mentre ora tutto appare consumato. Il logoramento delle tre leadership più significative e votate degli ultimi venticinque anni, il triplice assedio che soffoca Renzi, Grillo e Berlusconi, trasforma la politica italiana in un labirinto senza vie d’uscita.
Il Movimento 5 stelle si capovolge nel partito vecchio stile:l’hotel Forum di Grillo come l’hotel Raphael di Craxi, le riunioni in streaming dimenticate che lasciano il posto ai vertici notturni e misteriosi. Il Movimento dei puri si scopre permeabile, scalabile, infiltrabile. Contaminato dal virus Marra e più ancora dalla indecifrabile Virginia Raggi: è lei, la sindaca di Roma ad apparire alle fazioni opposte il corpo estraneo che forse distruggerà M5S, di certo ha già silenziato chi gridava onestà. E Marra non è neppure il compagno G, non ha la dignità di un Primo Greganti, che nel 1993 fece ammainare la bandiera del Partito comunista «un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto», di cui scriveva Pier Paolo Pasolini, quel che voleva suggerire oggi il Movimento 5 Stelle: fine precoce del mito della diversità.
Silvio Berlusconi gioca sul doppio tavolo della resistenza. È stato per decenni il padrone assoluto della sua arena, la televisione commerciale o la politica, in grado di piegare maggioranze parlamentari, le istituzioni e le regole del mercato ai suoi interessi ad personam, oggi è il capo della ridotta di Arcore, scalato dall’amico di famiglia francese Vincent Bolloré. L’ultima metamorfosi dell’ex Cavaliere, la più amara: da monopolista a socio di minoranza. Un gioco nuovo, trattare su entrambi i tavoli, l’azienda e la politica, per non finire nell’irrilevanza.
L’ex Cavaliere chiede aiuto al governo Gentiloni, sceso in campo contro le azioni ostili di Vivendi, ostili cioè nemiche, e in cambio offre la sua disponibilità a entrare nel gioco della riforma elettorale, con una doppia opzione. Finire come spalla di Matteo Salvini, se dovesse tornare il Mattarellum con i collegi uninominali che obbligano tutti a stare insieme sotto lo stesso simbolo. O come partner non più protagonista di Matteo Renzi, in caso di legge elettorale propor zionale. La prima è una scelta amara, la seconda non esaltante. Ma consente a Berlusconi di restare nel pacchetto di maggioranza, non più da numero uno ma da socio necessario. In attesa di riorganizzarsi, pescando magari dentro l’azienda: Paolo Del Debbio. Il terzo assediato, l’ex premier Renzi, oggi soltanto segretario del Pd, si muove tra le sabbie mobili del suo partito. Con il referendum del 4 dicembre si è chiuso il lungo ciclo della leadership solitaria, l’uomo al comando, il decisionismo al potere. Forse perché agli occhi di un pezzo di elettorato ha deciso ben poco, o ha deciso male.
Il Mattarellum, la legge elettorale approvata dal Parlamento e firmata dall’attuale Capo dello Stato che all’epoca fu relatore della maggioranza, nel 1993 fu la via d’uscita con cui il sistema riscrisse le sue regole, dopo il trionfale referendum Segni con cui gli italiani avevano chiuso con la Prima Repubblica. Oggi appare l’ultima spiaggia, l’unico approdo possibile per salvare quel poco che resta del maggioritario prima di arrendersi al sistema proporzionale. Dopo un voto referendario ancora tutto da decifrare. In mezzo all’Anno Zero che può significare un nuovo inizio. Oppure il Caos primordiale. L’Espresso