Quando chiedi a Giulio Tremonti come giudica gli scenari economici dell’Italia che Renzi ci ha lasciato in eredità, l’ex ministro dell’Economia ricorre ad un paragone molto calzante: è come se il precedente governo avesse vissuto una sua realtà, una realtà virtuale.
Ha preso provvedimenti, ha accantonato misure, ha privilegiato risorse tutte «pro domo sua» e indipendentemente dalle necessità della congiuntura e della recessione sempre più grave. Mi vengono così in mente le parole di un altro professore, Luigi Zingales, che nell’intervista al Giornale dell’altro giorno, aveva sottolineato come, dal marzo scorso, non è stato adottato più alcun provvedimento considerato impopolare dagli italiani per non rischiare di perdere consensi in vista del referendum.
È come se si fosse tutto fermato. Se il palazzo brucia, lasciamolo bruciare. Due i casi più significativi. Da una parte Montepaschi, che ha continuato ad accumulare debiti su debiti: ancora in ottobre il ministro Padoan aveva, anzi, rassicurato i risparmiatori perché tutto era sotto controllo. Salvo, poi, fare repentinamente marcia indietro alcune settimane dopo, quando la doppia frittata quella delle passività della banca a livello fallimentare e quella della Caporetto dei Sì – era ormai fatta con buona pace di Renzi. Ma in autunno da Palazzo Chigi e dintorni era anche arrivata la notizia sulle offerte in dirittura d’arrivo per Mps di investitori del Qatar e di Soros: in realtà, i fantomatici acquirenti si sono dileguati come nebbia al sole per il semplice motivo che non hanno mai espresso ufficialmente il loro interesse all’operazione. Solo tanto fumo per arrivare, in zona-Cesarini, a un salvataggio che poi non è stato un vero salvataggio come ha fatto sapere, lunedì, la stessa Banca centrale europea di Draghi: ci vorranno altri quattrini.
Del resto, l’istituto di Siena è solo la punta dell’iceberg di una emergenza-credito che parte da molto lontano (ricordiamo il quasi-crac di quattro banche nel 2015), e che è andata sempre più deteriorandosi proprio per colpa di un governo che non ha voluto «sporcarsi le mani» in prossimità delle grandi manovre referendarie. Un pesante fardello che Gentiloni si è, ora, dovuto farsi carico e, per giunta, con gli stessi ministri che hanno contribuito all’attuale disastro.
E che dire di tutte le misure che sono state accantonate per indorare la piccola degli elettori italiani? Un esempio tra i tanti: l’aumento di due punti dell’Iva che sarebbe dovuto scattare il 1° gennaio, una patata bollente che Renzi, per i soliti fini elettorali, ha preferito lasciare ai posteri, nonostante l’emergenza del debito pubblico. Il nuovo premier si è trovato in eredità anche questo fardello e sarà costretto a passare subito all’incasso per rastrellare i quattrini aggiuntivi chiesti da Francoforte per salvare proprio Mps anche perché la Ue non è più intenzionata a chiudere un occhio sul nostro bilancio. E, allora, mi chiedo, aumento dell’Iva a parte, cosa altro Gentiloni sarà costretto a inventarsi per recuperare il tempo colpevolmente perso in tanti mesi d’immobilismo.
Ma l’aspetto forse più paradossale della vicenda e che, in tutte le salse, per tutta l’estate ci avevano bombardato sul fatto che la vittoria del No al referendum avrebbe favorito il fallimento dell’Azienda Italia: aveva cominciato l’ufficio studi della Confindustria seguito, poi, da tanti altri autorevoli guru. Dicevano che la sconfitta di Renzi sarebbe stata un’Apocalisse per la nostra economia. Invece la verità è un’altra: la nostra economia è ancora più in panne, con tanti imprenditori sull’orlo del baratro, proprio per colpa dell’ex premier che ci ha portato in mezzo alla tempesta perfetta facendo finta di nulla e non prendendo le giuste misure al momento giusto. Cornuti e mazziati, ma fino ad un certo punto perché Renzi non c’è più. IlGiornale