Non c’è decisione importante, a livello politico, che sfugge alla chiave di lettura dei mercati e forse perché sono i mercati la chiave di lettura stessa per comprendere determinate scelte politiche. Quantomeno nell’era in cui l’ago della bilancia di quella eterna tensione tra Capitale e Lavoro– che ha riscaldato non poche anime nel corso del Novecento in Europa- sembra cedere sempre di più verso il primo, allontanandosi come mai prima dal secondo. Il passo dalla semplice constatazione e alla spiegazione pratica è molto breve: basta pensare ai titoli quotidiani che, in occasione di eventi politici di una certa importanza, hanno riempito e continuano a riempire le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Prima il voto sulla Brexit, poi quello sull’elezione del nuovo presidente americano, mentre il 4 dicembre sarà la volta del Referendum sulla riforma costituzionale in Italia: cambiano i contesti politici e sociali, cambiano gli avvenimenti e gli scenari ma sulle prime pagine dei giornali ci sarà sempre spazio per informarci sulle preoccupazioni degli investitori, il crollo delle borse o l’innalzamento dello spread. “Allarmismi” che spesso o quasi sempre precedono di gran lunga le questioni politiche in funzione delle quali nascono e che, per questo, indirettamente le influenzano.
Non deve stupire dunque se il premier Matteo Renzi, a pochi giorni dal voto referendario ma anche a mille dall’inizio del suo governo, cita lo spread (giunto a 180 punti) definendo queste oscillazioni “ovvie” a causa dell’incertezza, seppur precisando che si tratta di “una constatazione, non di una minaccia”. Mentre è lo stesso direttore generale di Banca Generali, Gian Maria Mossa, ad interpretare l’agitazione dei mercati e l’innalzamento dello spread come un “segnale di preoccupazione”. Dunque, ricapitolando, i mercati si preoccupano (che vinca il “No”), lo spread si innalza gradualmente e Matteo Renzi mette in guardia i cittadini. Nonostante le accuse di “terrorismo psicologico” avanzate dalle opposizioni, secondo il segretario del Pd- che con questo Referendum si gioca anche la credibilità- l’unica arma contro la famosa incertezza sarebbe proprio la “sua” riforma costituzionale in quanto “punto di partenza per poter impostare il futuro e far svoltare il paese”.
Peccato però che la riforma vuole rispondere- come già noto- alla richiesta di “stabilità” già avanzata dai mercati nei confronti dei governi europei e, in particolare, nei confronti dell’Italia con la ormai famosa lettera Draghi-Trichet del 2011- la quale inneggiava a riforme strutturali e istituzionali necessarie per il nostro Paese anche se limitative dei diritti sociali e degli spazi di partecipazione democratica- ma anche attraverso documenti “informali” come quello in cui J.P. Morgan nel 2013 indicava tra i “difetti” delle costituzioni europee, nate dopo la caduta del nazi-fascismo, una forte debolezza degli esecutivi nei confronti dei Parlamenti ed una quasi eccessiva tutela costituzionale del diritto del lavoro, comprendente i diritti di manifestare, di scioperare e di opporsi- realmente o simbolicamente- alle scelte non approvate del potere (Capitale).
Ma al di là delle ragioni per cui votare Si o No al Referendum costituzionale, è il caso di ricordare come ancora una volta le “forze esterne” provano a prendere il sopravvento usando come arma di ricatto proprio gli strumenti finanziari. Già nel 2011, agenzie di rating come Standard & Poor’s e Fitch contribuirono a destabilizzare il mercato dei titoli di Stato italiani facendo impennare vertiginosamente lo spread. L’aumento del famoso differenziale Btp-Bund fu direttamente proporzionale all’accrescersi, nell’opinione pubblica, di un malessere diffuso nei confronti del governo Berlusconi, considerato automaticamente responsabile di quella crescita (in quei mesi si superarono i 500 punti base). La difesa di Berlusconi trovò in parte riscontro nelle operazioni di indagine della Procura di Trani sfociate in sequestri di documenti e mail negli uffici milanesi di Deutsche Bank, accusata di manipolazione del mercato: come scrisse il Sole24Ore:
“Deutsche Bank in tre pubblicazioni nel periodo febbraio-marzo 2011 definì sostenibile il debito sovrano dell’Italia, ma nascose ai mercati finanziari le sue reali intenzioni di ridurre subito e drasticamente i titoli italiani in portafoglio”.
Per di più “queste manovre sono ritenute idonee ad alterare la regolare formazione del prezzo di mercato dei titoli di Stato italiani sia nel primo semestre 2011 (quando il mercato ignorava le dismissioni di titoli) sia successivamente alla pubblicazione periodica del giugno 2011″. Una ragione per pensare che fu la massiccia vendita di titoli di Stato italiani da parte dell’istituto di credito tedesco- e non l’inettitudine del governo in carica- a fare impennare lo spread ed innescare la successiva “miccia” che portò al golpe finanziario in Italia. Un’altra ragione, infine, per non farsi influenzare dall’ennesimo ricatto. L’Intellettuale Dissidente