“L’antimafia non è un’autocertificazione, ma uno stile di vita. Certo giornalismo reticente è stato superato e abbattuto dalla rivoluzione in atto in questi anni. Con Ciancio è sotto giudizio tutto il sistema di potere che ha condizionato Catania negli ultimi quaranta anni”. Claudio Fava è diretto e chiaro, come sua consuetudine personale e professionale, sia da giornalista che da parlamentare.
On. Fava, il suo ultimo lavoro, “Comprati e venduti” è un’analisi spietata del mondo dell’informazione in Italia. Il giornalismo italiano ha perso i suoi valori etici e la spinta di critica civile ed è ormai assoggettata a logiche politiche e di lobby imprenditoriale?
«C’è questo, ma non solo. C’è un giornalismo abbastanza impigrito, seduto, molto attento alle buone relazioni, alle linee di comando, ben disposto a guardare altrove quando occorre scrivere qualcosa di scomodo. Ma c’è una generazione di giovani giornalisti, spesso fuori dai canoni formali della categoria, senza un contratto in tasca che però sono un punto di riferimento importante: penso ai tanti cronisti di frontiera che da freelance rischiano la vita e continuano a raccontare storie innominabili o storie che altri colleghi preferiscono snobbare. Le raccontano, le raccolgono, le accarezzano contrariamente a coloro che hanno scelto la linea di un comodo consociativismo, hanno contro i poteri forti certe volte anche criminali. Il giornalismo italiano nella storia recente e non solo, ha elementi di forte contraddizione: da una parte una professione piuttosto impigrita, un giornalismo molto ambiguo, reticente e poi storie isolate – ma non troppo – di giornalisti che si sono formati nel ricordo e nel racconto di alcuni colleghi che non ci sono più, comprendendo che questo mestiere si fa camminando a piedi guardando in faccia la realtà. Ricordiamo che sono stati alcuni giornalisti che hanno permesso di scoprire, prima che la magistratura assumesse le sue determinazioni, cosa fosse diventata la presenza delle criminalità mafiosa nelle regioni come l’Emilia Romagna o la Lombardia».
Il “caso Ciancio”, se dovesse concludersi con il rinvio a giudizio per concorso esterno ad associazione mafiosa, secondo lei, oltre a coinvolgere l’editore e l’imprenditore dai molteplici interessi, non è anche uno stato d’accusa al sistema di potere che ha gestito Catania negli ultimi quarant’anni?
«Assolutamente sì, ma la vicenda Ciancio, con o senza rinvio a giudizio, ha ben delineato un percorso di fatti narrati, fatti che non sono messi in discussione, chiaramente i magistrati sono chiamati a valutarli, a giudicarli secondo il Codice penale ma i fatti restano. E questa realtà, a prescindere dal rinvio a giudizio, mette in stato d’accusa tutta la città: tutti coloro che hanno saputo e hanno taciuto, gente che ha ritenuto in questi anni di considerare la continuità, l’affinità con Ciancio – inteso come editore ma anche come imprenditore – vedendolo come una risorsa preziosa a prescindere da tutto quello che nel frattempo era accaduto e stava accadendo, fino all’ultima vergognosa telefonata tra Ciancio ed Enzo Bianco, candidato sindaco, in cui c’è davvero il segno della subalternità politica e culturale di una generazione politica catanese nei confronti di questo uomo e di ciò che questo uomo rappresenta, al di là del fatto che poi venga o meno condannato o assolto».
Lei, da giornalista, crede che lo sbriciolamento del monopolio di Mario Ciancio possa essere l’inizio di una rinascita dell’informazione in Sicilia orientale, pur considerando i limiti di un mercato pubblicitario ormai in esaurimento e di una vera rivoluzione tecnologica nel mondo dell’informazione?
«Credo che questo monopolio abbia perduto la sua sicurezza nel momento in cui la tecnologia ha permesso di fare un eccellente lavoro di informazione, sottolineando le lacune, le reticenze di altri autorevoli organi. Si tratta di un mondo nel quale se le informazioni sono ben curate, se valgono, meritano e lasciano un segno, camminano sulle loro gambe senza bisogno di essere spinte.
Quindi il monopolio di Ciancio, in parte, non esiste più perché le reticenze, le omissioni che un tempo non potevano essere confutate se non c’era qualcun altro a scrivere il contrario, non sono più assolute ed è la ragione per cui in Sicilia sono morti molti giornalisti. Adesso sono parecchi i modi con cui cercare le notizie, ma tutto questo andrebbe fatto con senso e spirito della professione».
Qual è il suo parere sull’attuale antimafia politicizzata, da Crocetta a Lo Bello, con tutti i limiti di credibilità che sono emersi negli ultimi mesi?
«Non credo sia politicizzata, in alcuni casi è un’antimafia di facciata. Credo che occorra distinguere l’antimafia delle autocertificazioni – fatta da convegni e da dichiarazioni eloquenti – da quella dei fatti che produce effetti e persino rischi. Stiamo imparando a distinguerla, a conoscerla, anche io in passato ho preso dei grandi abbagli ritrovandomi a sostenere personaggi che in realtà facevano poco. È importate avere capito che l’antimafia non è un titolo onorifico da stamparsi su un bigliettino da visita, si tratta piuttosto di uno stile di vita, di pensiero, di impegno. Anche la stessa parola, “antimafia”, andrebbe superata e sostituita perché troppo logora, occorrerebbe produrre verità, fatti, il resto è circo». Sicilia Journal