Le novantuno vite di Camilleri che non ci stancheremmo mai di ascoltare

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Andrea Camiller

di Valerio Musumeci

Probabilmente il compito di Andrea Camilleri su questa terra è riempire di rimorsi i giovani scrittori. Mentre quelli ciondolano svagati dinnanzi alla pagina bianca, lambiccandosi il cervello in cerca di ispirazione e trovando soltanto noia, e disperando sempre più di riuscire ad avere fortuna – che non gliel’ha mica detto il dottore che devono scrivere, intendiamoci – mentre questo contorcimento avviene nelle budella ancora fresche di tanti giovanotti egli, che ieri ha compiuto novantuno primavere, e ha cento libri alle spalle, e ha venduto milioni di copie nel mondo, e avrebbe tutto il diritto di passare gli anni a venire  – che siano cento e passa – nell’abbraccio dei figli, dei nipoti e del pubblico che non manca di seguirlo numeroso quando interviene a conferenze o in televisione,  egli dunque che avrebbe il diritto a ritirarsi non ci pensa nemmeno. Ed è comprensibile, che è scemo lui? Quel suo gran cervello si è conservato così bene appunto perché non si è fermato; il successo di Montalbano, giuntogli in tardissima età, l’ha preservato dal tempo massaggiandolo come un balsamo, e senza le controindicazioni che in genere il successo comporta, essendo il carattere di un settantenne – di un settantino, per dirla in vigatese – assai meno sensibile a certe seduzioni o anche soltanto al fascino dei soldi.

Di questo c’è da averne la certezza, Camilleri non continua a lavorare per motivi economici. Certo, soldi ce ne stanno assai, dietro l’industria editoriale e televisiva internazionale che sul suo personaggio più famoso si è costituita: ma a lui, dei soldi, ragionevolmente non frega una benemerita. E non adesso, che per quanto il cervello sia intonso il corpo risente ugualmente dei dieci decenni di cui ancora uno tutto da spolpare; già prima, quando le uniche sue passioni da uomo, estinte quelle corporali, rimanevano la lettura e la scrittura. Leggere non può più, essendo definitivamente calata l’ombra sui suoi occhi: l’udito è tuttavia ancora buono e dunque egli ascolta. Scrivere, anche quello va diventando difficile ma quando c’è la passione – la passione, giovanotti! – non c’è impedimento che tenga e quindi egli detta, poi si fa rileggere e corregge, lima minuziosamente il vigatese che l’ottima sua assistente Valentina Alferj conosce già a menadito, riunisce nella sua mente i fili del romanzo – o del racconto, poco importa, Camilleri è uno scrittore scientifico con misure precise – e via, in bozza alla Sellerio, un giro di correzione per scrupolo perché in genere non c’è bisogno, e a cadenza regolare, in libreria, ecco lì il nuovo Montalbano, o il nuovo libro latu sensu perché nei cento che il vegliardo si è messo alle spalle ci sono anche saggi, ricerche, divagazioni varie sulla storia e la cultura purché in qualche modo, di riffa o di raffa, si trovi uno spiraglio per farvi entrare la Sicilia. Perché Camilleri non si è riscoperto siciliano, dopo una vita a Roma, soltanto per dar luogo a Montalbano: egli lo è sempre stato di nascita e di pensiero, e non vi rinuncerebbe pena l’estinguersi non solo della vena di romanziere ma della vita sua stessa. Un uomo che rinneghi le sue radici è un povero; se le rinnega da siciliano allora è un criminale.

Per un ritratto migliore di quello che noi possiamo tentare si rimanda a quello bellissimo di Pietrangelo Buttafuoco, l’anno scorso, per un celeberrimo giornale romano. Noi si fa quel che si può: Camilleri beveva molto, soprattutto quand’era più giovane. Birra al mattino – ma anche whiskey, raccontò, e di ottima marca, e in quantità generose – grappa in montagna, niente vino perché l’ultima volta che s’era ubriacato, il 1° maggio 1947, era accaduta la strage di Portella della Ginestra e non aveva più potuto sopportare il frutto della vite. Comunista orgogliosissimo, “La condizione umana” di Malraux come luogo letterario della presa di coscienza della propria identità politica, un dramma, e le successive esperienze di che cosa fosse essere comunista per un uomo nato nel 1925 e destinato ad attraversare tutto un secolo – altro che comunismi odierne e zecchismo elevato a concetto, giovanotti! – la Rai che non lo prende nonostante abbia superato il concorso salvo poi ripensarci assumendolo come sostituto, l’invenzione della figura di delegato di produzione, le regie e le avventure connesse in una televisione che si andava ancora formando e opponeva alla professionalità una coscienza ancora incompleta delle potenzialità del mezzo, coscienza che invece lui ha e sarà uno dei motivi del suo successo di autore televisivo, le riduzioni dei Maigret di Simenon con Gino Cervi, le serie televisive per bambini, il teatro dell’assurdo portato sul piccolo schermo, quello di Eduardo collaborare col quale doveva essere una stordente meraviglia, tutto questo si trascina oggi come lo strascico di un peschereccio nella mente di Camilleri e quindi è impossibile coglierlo impreparato, nella rete vi è certamente un ricordo per ogni situazione, ogni concetto, ogni ambito nel quale lo chiamino ad intervenire. Ed egli interviene con grandissimo piacere, si crogiola nella sua poltrona e fuma persino di meno se ciò che sta raccontando è particolarmente croccante, i ricordi stanno lì e non gli si chiede altro che di aprire lo scrigno e mostrarli.

Della sua vita si sa molto, perché appunto lui stesso si è molto raccontato dal salotto della sua casa piena di libri, assiso sulla poltrona vicino al divano o sul divano stesso, questioni di luce, di inquadrature televisive, sempre impeccabilmente vestito così come scrive, le sigarette pronte all’uso lì vicino – il dottore che gli aveva chiesto di smettere, vedendolo nervosissimo alla visita successiva, professionalmente gliene porse una – le mille leggende di un’esistenza lunga e piena che si ripetono nell’incanto della sua voce cavernosa – curioso che nessuno gli abbia chiesto di fare il doppiatore – l’incontro con don Luigino Pirandello parente di sua nonna quand’era ancora picciriddu, le esperienze di vita nella natia Porto Empedocle e certe avventure di donne e materassi raccontate a Teresa Mannino per uno special televisivo su di lui, il trasferimento in Continente e la nostalgia del rumore del mare, l’insegnamento alla Silvio D’Amico, il ritorno alla scrittura che aveva corteggiato da giovane come poeta, l’esplodere di Montalbano e la scoperta che il commissario altro non è che suo padre, traslato dai ricordi alla penna per automatismo, e infatti se ne accorgerà la moglie e non lui, i libri che si ammucchiano negli scaffali delle librerie, la serie televisiva che riscuote stragrande successo, l’elevazione a opinion leader specialmente in fase antiberlusconiana, i teatri pieni quando il suo nome appare in locandina, il festeggiamento solenne davanti alla sede Rai in occasione dei suoi novant’anni, i bambini che gli gridano e lui che risponde di ricambiare il loro affetto. C’è più di una vita in questa vita, come forse c’è in ciascuna vita: il vantaggio di Camilleri è di averlo capito, ed essersi comportato di conseguenza.