La tragedia, il dolore, la paura della forza misteriosa che vive sottoterra e può farci cadere la casa sulla testa da un momento all’altro, e poi la reazione, il coraggio, la volontà di ferro di quelli che chiamiamo appunto volontari, le raccolte fondi e la solidarietà, un sindaco anch’esso di ferro che cerca di alzare la voce, un Papa che non può far altro che invitare a pregare, i presidenti che si segnano il capo nell’affollato raccoglimento di un funerale, tutto ciò – nella tragedia sempre, nell’immane tragedia – avrebbe una sua disperata bellezza e si specchierebbe nella dignità di un popolo, nella forza dei sopravvissuti, nel desiderio ardente di ricominciare, di ricostruire, di fare l’amore, se come sempre avviene non si insinuassero in mezzo la politica, nella sua accezione più negativa e bestiale, e il giornalismo, il cattivo giornalismo cioè, quello che guarda soltanto al guadagno e passa sopra le teste di tutti e ciascuno, e poi, naturalmente, le opinioni di ogni cittadino su una tragedia distante, indefinita, destinata presto a dimenticarsi, e solo per la ricorrenza, negli anni, rivivere.
Anche stavolta, come sempre, come ogni volta che la conta dei morti sale sopra il livello di guardia – qual è? – e ci sentiamo in dovere di esprimerci, per esorcizzare la paura, per scacciare l’inquietudine, per ricordare a noi stessi che noi siamo vivi e loro – i 290 morti, al momento – sono soltanto i protagonisti di una storia sbagliata, come quella cantata da De Andrè per Pasolini, i martiri di una tragedia che è sempre annunciata – tremano le gambe, a pensare che succederebbe a Catania con un sisma di quel tipo – le vittime di un’inettitudine storica della classe dirigente italiana, altri, insomma, non noi stessi che abbiamo ancora un computer su cui digitare e giornali da compulsare e foto da pubblicare – e dimissioni da chiedere, s’intende – cioè a dire noi ancora vivi, noi ancora presenti, noi sempre sul pezzo. E capita allora che un giornalista televisivo pieno di nei dica una frase che stride con la nostra pretesa sensibilità, e che un ministro la condivida, e che il sito di proprietà di un ex comico ora leader politico la rilanci raccontandola come conviene a lui, ed ecco che tutti diventiamo accusatori e giudici, avvocati e giuria e tribunale di una caccia alle streghe sinistra, la caccia alla verità stridente – il terremoto genera Pil? Sì, per fortuna dei terremotati, nella sfortuna di essere terremotati – la caccia che si risolverà in niente, e così sia avrebbe detto Oriana, e così sia diciamo in fondo anche noi che non perseguiamo obbiettivi, ma cerchiamo solo combustibile per un’indignazione facile ad accendersi e altrettanto facile a spegnersi, come sempre, come ogni volta che la conta dei morti sale eccetera eccetera.
E allora? Niente, appunto. Siamo il paese dei balocchi, il luogo fantasmagorico dove ognuno può dire la sua sciocchezza e pretendere che gli altri la condividano per forza, Voltaire al contrario, siamo il paese del “vergogna!” facile, e delle scuse che non arrivano mai, nemmeno in questi momenti che ti mettono a tu per tu con te stesso, a dirti “non sei un cazzo” nello specchio della tua anima, basta una scossa e muori, polvere sei e polvere ritornerai, e le tue riflessioni sono inutili come le passerelle che tanto contesti, come le frasi per cui crocifiggi, come le sciocchezze per cui ti indigni, come gli articoli che scrivi per dire la tua. Ci salverà soltanto la buona fede, se ce l’abbiamo, perché siamo tutti – sopratutto noi scriventi – delle canne che stanno dritte soltanto se non c’è vento e non trema la terra.