Ci fu un momento, nella prima metà degli anni Ottanta, in cui i capelli di Donald J. Trump ebbero una qualche credibilità. Fu una cosa di passaggio, un incidente di percorso: come pure l’attività di cui il giovane miliardario si dilettava a quei tempi, una squadra di football che non sarebbe riuscito a far decollare nonostante i soldi spesi e l’impegno profuso nel rendersi protagonista delle cronache sportive americane. Non aveva ancora quarant’anni, Donald Trump. E i New Jersey Generals si sarebbero afflosciati come di lì a poco la cofana bionda che oggi lo rende riconoscibile (poco tempo dopo, dall’altra parte dell’oceano, un miliardario italiano con pochi capelli avrebbe fatto il botto acquistando e rilanciando il Milan).
Ma sarebbero passati ancora trent’anni prima che Trump e Berlusconi potessero essere ufficialmente accostati come eponimi del tycoon polifunzionale che dove lo tocchi suona: soltanto lo scorso 18 luglio, intervenendo alla convention repubblicana di Cleveland, Trump è diventato realisticamente il candidato “di destra” alla presidenza degli Stati Uniti. Più che le primarie stravinte e il ritiro dei concorrenti – Ted Cruz gli lasciò il campo liberà già a maggio – servivano i nastrini a stelle e strisce sventolati alla Quicken Loans Arena. Più che i malumori dei democratici e degli stessi repubblicani serviva l’intervento della futuribile first lady, un’arma impropria che si chiama Melania Trump e che essendo la terza moglie di un miliardario trent’anni più vecchio sigilla indefettibilmente il paragone tra Donald e Silvio. Che non si conoscono ma si piacciono, sebbene Trump possa solo sperare di vincere come Berlusconi ha vinto e di durare quanto Berlusconi è durato, dovendo diventare presidente in America e non nella fumettistica Italia.
Arma impropria, si diceva della first lady in pectore. E che petcore: se Melania Trump nata Knavs e naturalizzata Knauss non verrà sganciata sulla Siria per sterminare il millantato Stato Islamico sarà solo perché l’eventuale presidente preferirà averla vicino per blandire senatori ribelli e capi di Stato esteri. Modella, seno più che prosperoso, viso selvatico minacciato da qualche intervento di troppo – memento Ivana! – Melania detta Mel ha parlato con grinta ma a parte quella ha già i numeri per essere un personaggi come e più del marito. L’affinità tra i due è leggendaria (“Ho dimenticato cosa significhi la parola litigio” ha detto lui), come pure il ricevimento di nozze nel 2005 a cui parteciparono – le foto lo certificano – l’ex presidente Bill Clinton e l’allora senatrice Hillary. La fresca terza sposa immaginava di salire su un palco, undici anni dopo, per sostenere il marito nella corsa alla presidenza e proprio contro l’illustre ospite? Forse sì, dacché la politica è una delle fissazioni del miliardario: i Simpson, nel sontuoso sketch dedicato a Trump e alla cofana bionda, hanno buon gioco a mostrare un cartello in cui la data della candidatura si aggiorna automaticamente, 2012, 2016 e via così ogni volta che la promessa di vittoria non è attesa. Sogno proibito, desiderio più che confessato eppure ancora intatto, nonostante i soldi, l’influenza e forse anche il carisma.
Adesso, c’è da dire, l’estroso plutocrate è al redde rationem, al vincere o morire ovvero ritirarsi in buon ordine se le cose andassero male, che se gli americani morissero tutti ad ogni guerra persa avrebbero desertificato gli States da un bel po’. E pure questo è tipico di Trump, l’atteggiamento scazzoso da yankee, la cravatta rossa troppo accesa sul completo blu, i denti catturati in fotografia in più di un’espressione eccessiva, la battuta pronta ed anche un po’ volgare. E ancora l’attitudine a giocare sporco e a vantarsi del proprio denaro – più fine, in questo senso, il collega italiano –, come quando chiese al presidente Obama il certificato universitario per dimostrarne il luogo di nascita e promise in cambio una donazione di cinque milioni di dollari ad un’opera di beneficienza. Cosa di andarlo a strozzare in diretta, che Obama sia nato o meno in Louisiana: non si gioca con i soldi alle spalle dei bisognosi, nemmeno se i soldi sono i tuoi. Trump la pagò subito: ospite del compianto David Letterman Show, dopo aver armato questo teatrino, fu castigato dal terribile conduttore il quale dimostrò come l’abbigliamento Trump venisse prodotto in Bangladesh e soprattutto nella vituperata Cina. Lui zitto, da buon incassatore, sorridente ma preso chiaramente in castagna.
Era una puntata del 2012. Dopo aver tentato di correre in prima persona ed essersi poi risolto a sostenere Mitt Romney – che non riuscì a fermare un pur acciaccato Obama – Trump non trovava di meglio che accapigliarsi su queste sciocchezze rischiando brutte figure in televisione. Senza mai perdere di vista – lo rilevava qualcuno ultimamente – l’obbiettivo del 2016: la campagna elettorale iniziò una volta chiuse le urne della precedente. “We Make America Great Again!”, sorrisi e frasi ad effetto per sconvolgere il mondo e attirare l’attenzione. Annotava in quei giorni la Repubblica, traducendo i colleghi americani: «Secondo un recente sondaggio della Quinnipiac University, sette elettori su dieci, a livello nazionale, hanno un’opinione negativa su di lui, compreso il 52% dei repubblicani. Secondo la media dei sondaggi di Real Clear Politics, Trump è il nono candidato preferito dai repubblicani, con il 3,6% delle preferenze». Infatti: speech dopo speech, stato dopo stato si arriva alla convention repubblicana, con la candidatura in tasca e gli ultimi serratissimi mesi di campagna elettorale davanti. Dall’altra parte c’è Hillary: una della quale molto si sa e molto si teme, dal punto di vista politico come da quello personale.
Proprio sul personale Trump non ha esitato a colpirla, rivangando semmai lo si fosse dimenticato il sexgate, esprimendosi da par suo e cioè da cafone, eppure travolgendo concorrenti e nomenklature di partito e conquistando il maggiore consenso di sempre per un candidato repubblicano alle primarie – battendo il record di George W. Bush, che per festeggiare si è messo a ballare alla commemorazione funebre della strage di Dallas. Una cosa da far vergognare la vergogna e certamente Michelle e Barack, gli inquilini uscenti di quella Casa Bianca che dovrà pure avere un nuovo inquilino, per quanto sembri imprevedibile il risultato del voto. A proposito di Michelle, c’è chi ha malignato che le parole di Melania alla Quicken Arena fossero ricalcate e persino copiate da quelle pronunziate a suo tempo dalla prima first lady nera (Mel sarebbe invece la prima slovena naturalizzata tedesca e poi americana: gioiscano le suffragette!): ma la realtà è che non c’è molto da dire, quando il proprio marito vuol diventare presidente, se non che sia il più indicato e che perlomeno lei, la moglie, non abbia dubbi se votarlo o meno. Forse qualcuno non ha ancora metabolizzato l’accaduto, il parvenu è arrivato in cima e ambisce adesso a sedere nell’olimpo dei presidenti americani: toccherà farci i conti, già dai prossimi mesi.
Sarà bene o sarà male? Sarà meglio o peggio di Hillary? Lo vedremo stempiare allo Studio Ovale o continueremo a temere che possa vincere all’infinito? Ci sono domande a cui il più sfacciato degli analisti non saprebbe rispondere, figuriamoci noi che analisti non siamo. Ciò che sembra di potere affermare con ragionevole certezza è che Donald Trump sia un fenomeno mediatico e politico di cui è difficile trovare eguali, se non appunto in casa nostra ripensando al Cavaliere: se il destino fosse lo stesso gli augureremmo di non farcela, ma questo tipo di uomini è fatto così e non c’è limite ad una fame di potere e protagonismo che curiosamente – neanche tanto, poi – aumenta con l’età. Forse un pazzo siederà alla Casa Bianca, forse Hillary prevarrà e dovremo trovare altri aggettivi tra cui first sir per indicare il marito (come suona male!): tocca agli americani darsi il loro futuro ed in particolare al Partito Repubblicano, di qui a pochi giorni, dare l’ufficialità alla candidatura.