Scuola, latino sì o no? Dipende da come lo si studia

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di Roberta Barone

“O tempora! O mores!”, avrebbe esclamato ancora una volta Cicerone se oggi avesse assistito allo scempio di un’Europa unita da una moneta e da un Parlamento, ma così distante e miope nei confronti della sua grande storia. Non la giovane America, ma il vecchio continente oggi sempre più in balia di logiche consumistiche e processi di globalizzazione che lo vorrebbero conformare, omologare al pensiero unico della produzione e dei mercati. Una “globalizzazione culturale” che tende a cancellare le differenze sociali, culturali, storiche dei singoli Stati europei al fine di standardizzarli, appiattirli, renderli terribilmente uguali di fronte l’unica cultura dominante del capitalismo finanziario. Una miopia che ti permette di guardare il contesto vicino, perdendo però la cognizione di quello lontano, dell’orizzonte da cui lo stesso presente nasce, si sviluppa e si evolve fino a giustificare l’attuale forma visibile ai nostri occhi. Ma come comprendere il presente, come riscoprirsi italiani o europei, se diventiamo incapaci di trarre dalla stessa lingua latina – baluardo della nostra civiltà (non certo quella vantata oggi dalla finta destra italiana in funzione anti-islamica) – l’origine del nostro presente, della nostra identità?

Bombardati da pubblicità, talk show, fiction, fast food, modelli “culturali” che di culturale nulla hanno (vedi quello americano), siamo oggi sempre più docili e facilmente manovrabili da un sistema che considera morta una lingua sopravvissuta per secoli, mentre ti impone di conoscere obbligatoriamente quella inglese per conformarti alle nuove esigenze di una società sempre più dinamica, produttiva, globalizzata, occidentalizzata. Fin dalla più tenera età, l’insegnamento della lingua inglese in Italia come in tutte le scuole europee diventa condizione necessaria per conformare i giovani non tanto ad una lingua, quanto oserei dire psicologicamente e inconsciamente – all’idea di una cultura dominante, di una supremazia che varca i confini del vecchio colonialismo da cui la stessa imposizione della lingua inglese trae le sue ragioni, per colonizzare le menti, a partire dai consumi, dall’immagine di una bandiera sempre più insistente nel mondo della moda. Imparare l’inglese, rafforzare l’insegnamento di materie immediatamente spendibili (dopo gli studi) nel “mercato del lavoro” come la matematica e l’informatica e indebolire quelle umanistiche (o “umaniste” come direbbe di fronte una lavagna, Renzi). Un processo già ampiamente avviato ed oggi gradualmente accettato nelle società, a partire dalla quella italiana (Chomky lo spiegherebbe con il principio della rana bollita).

Ma ritorniamo al latino. Negli anni sessanta, in piena riforma della scuola italiana con la nascita della Scuola media unica, il giornalista Pier Paolo Pasolini rispondeva così – tra le pagine della rivista “Vie nuove” – ad un lettore che chiedeva il suo parere in merito all’importanza di lasciare o meno l’insegnamento del latino nelle scuole:

«Pur con molte incertezze, se io dovessi dare il mio voto sull’insegnamento del latino nelle medie, sarei per il sì. Sarei per il sì, ma evidentemente, in previsione di una riforma radicale della scuola. Perché, stando così le cose, il latino che si insegna a scuola è un’offesa alla tradizione. È il latino del perbenismo piccolo-borghese, accademico: criminale, insomma. Sotto tutta la televisione, atrocemente aleggiante, c’è, questo latino: piccolo, miserabile privilegio di cultura. Ma la colpa non è del latino. La colpa è della storia, che si insegna nelle scuole, o della letteratura, che si insegna nelle scuole, o della scienza, che si insegna nelle scuole…».

Lo scrittore friulano se la prendeva dunque non con il latino in sé e per sé, ma con l’uso che di quel latino “criminale” si faceva: non per “conoscere e amare il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo” – come egli stesso auspicava – ma per rimarcare i privilegi di una classe sociale sacrificata e venduta alla modernizzazione, alla speculazione. L’uso del latino doveva piuttosto rispondere ad esigenze sociali e culturali, invece rispondeva quasi agli stessi fini del latinorum usato da Don Abbondio ne I Promessi Sposi per far sentire Renzo piccolo e ignorante di fronte la sua furba maestria lessicale. L’ira di Pasolini colpisce il progressismo volto alla coltivazione di un egualitarismo culturale a partire dalla scuola media; tutto ciò a discapito del latino, della storia, dell’identità. Una finta uguaglianza che, senza radici e senza consapevolezza del proprio passato, perdeva ogni valore.

Quello della lingua latina è un argomento di cui oggi tanto si discute in Italia in relazione alla famosa riforma della scuola del Governo Renzi. Cancellare l’insegnamento della lingua latina, come già proposto in Francia, sarebbe un’enorme sconfitta non per i singoli Paesi ma per la stessa umanità (l’uso in molti contesti, come quella della Chiesa, è già stato abolito). Non pretendiamo che possa comprenderlo chi il latino non l’ha mai studiato o chi, pur avendolo studiato, lo ha sempre fatto con superficialità. Chi un giorno si perdeva, seppur con fatica e frustazione ed armato di un vocabolario, tra le righe di una versione per ricostruirne i nessi logici della frase, adattandone le parole al contesto, agli usi, ai costumi, al messaggio che si voleva rivolgere… certamente ci penserà più volte prima di affermare che quella “palestra mentale” sia stata inutile alla propria formazione umana prima che culturale. Non pretendiamo nemmeno che possa capirlo chi, oggi, preferisce valutare le attitudini dei giovani da una semplice crocetta tra alternative già prontamente servite, o da chi ritiene che per fare il medico o l’avvocato sia soltanto utile aver studiato medicina e legge, tralasciando l’importanza di conoscere la derivazione di molte parole e detti latini molto diffusi in questi come in altri ambiti nella nostra lingua italiana.

La verità forse è che la lingua latina, utile a sviluppare ed esercitare le capacità logiche dell’allievo e dei giovani, è oggi fortemente incompatibile col sistema produttivo a cui necessitano masse di lavoratori eccellentemente preparati in ambiti utili al rafforzamento delle aziende e del tessuto imprenditoriale volti a logiche di accumulazione. Percorsi formativi immediatamente spendibili, dunque, nel mondo del lavoro della civiltà post-moderna non possono che essere quelli che ti insegnano a lavorare ma non poi così tanto a vivere.