La storia si riscrive continuamente. Anzi spesso c’è bisogno di qualche anno per comprendere come davvero sono andati passaggi cruciali delle nostre vicende. Come la guerra all’Irak dichiarata nel 2003 dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Due giorni fa il rapporto Chilcot, che per anni ha indagato dal punto di vista britannico sul dietro le quinte di quella frettolosa alleanza che andò a uccidere Saddam Hussein, ha chiarito che Tony Blair, l’allora premier laburista britannico, trascinò il suo Paese in una guerra che provocò centinaia di morti tra i soldati della Regina senza che ci fosse una reale necessità. «Non vi erano minacce imminenti da parte del dittatore Saddam Hussein», si legge nel monumentale rapporto che per sette anni ha indagato tra documenti anche secretati e testimonianze riservate. In quei giorni tra i politici che cercarono in tutti i modi di far recedere Blair e George W. Bush dall’infilarsi in una guerra discutibile ci fu Silvio Berlusconi. Un episodio raccontato ampiamente nella biografia del Cavaliere «My Way», scritta da Alan Friedman, di cui riportiamo i passaggi salienti.
Fu nel gennaio 2003, sedici mesi dopo gli attacchi al World Trade Center, che i tamburi di guerra rullarono sempre più forti. Ai primi di febbraio, quando il segretario di Stato americano, il povero Colin Powell, fu costretto a presentarsi al Consiglio di sicurezza dell’Onu agitando una provetta che, a suo dire, poteva contenere l’equivalente di un cucchiaino di antrace, era ormai chiaro che Bush voleva la guerra contro Saddam Hussein. «Io ero molto preoccupato», ricorda Berlusconi. «Ero preoccupato e volevo provare a far cambiare idea a Bush. Stavo cercando un’alternativa all’invasione dell’Irak. Pensavo a un paese in cui Saddam potesse andare in esilio, una via d’uscita per evitare la guerra. Così contattai Gheddafi e discutemmo la possibilità che la Libia accogliesse Saddam. Ne parlammo una mezza dozzina di volte, tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003. Ed ero riuscito quasi a convincerlo ad accettare Saddam».
Berlusconi doveva essere ricevuto alla Casa Bianca il 30 gennaio. Nelle settimane che precedettero la visita si impegnò in una frenetica attività di diplomazia telefonica. «Fu un periodo pazzesco e Berlusconi parlò più volte con Gheddafi», ricorda uno dei suoi più stretti collaboratori. «Bush era disposto ad accettare la soluzione dell’esilio a patto che garantisse un vero cambio di regime in Irak, ma non credeva che ce l’avremmo fatta. E Gheddafi era un uomo incontrollabile, imprevedibile. Telefonava a Berlusconi nel cuore della notte e gli promettevamo di richiamarlo subito mentre andavamo a recuperare in fretta e furia un interprete. Era davvero pazzesco, stressante». () Ciò che, all’epoca, l’opinione pubblica italiana non sapeva è che Berlusconi stava ancora tentando di dissuadere l’amico George W. dalla follia di quella guerra. «La verità è che io volevo fermare la guerra», dice Berlusconi, misurando l’impatto delle sue parole.
«Andai da Bush – ricorda – perché volevo spiegargli la mia opinione sull’Irak, che è molto semplice. Quella è una nazione i cui confini sono stati tracciati a tavolino. È abitata da tre diversi gruppi etnici, rivali da secoli. Gli analfabeti sono il 65 per cento. Una nazione così non può essere governata come una democrazia, con un governo democraticamente eletto. Può essere governata solo con un regime, auspicabilmente con un leader che non sia un dittatore sanguinario. Così volevo evitare una guerra. Ecco perché ho fatto di tutto per convincere Gheddafi ad accogliere Saddam. In realtà Bush non era contrario all’idea, e l’avrebbe accettata, se ci fosse stato tempo sufficiente». () La mattina del 30 gennaio nello Studio ovale della Casa Bianca Berlusconi incontrò Bush. Come al solito, i due presidenti si scambiarono i loro migliori sorrisi. (…) Dopodiché la conversazione fu tutta su Saddam Hussein, sulle armi di distruzione di massa e sulle ispezioni da parte dell’inviato delle Nazioni Unite, Hans Blix. Berlusconi provò a insistere sull’idea dell’esilio di Saddam in Libia. «Ricordo di aver riferito al presidente Bush i miei colloqui con Gheddafi. Lui era molto interessato».
«Berlusconi cercava di essere d’aiuto», ricorda l’ex ambasciatore americano a Roma Mel Sembler, presente all’incontro nello Studio ovale. «Si comportava da buon alleato. Era in cerca di un’alternativa alla guerra. Il presidente ascoltò Berlusconi. Non era contrario all’idea che Saddam se ne andasse in esilio: la cosa essenziale era che lasciasse l’Irak». Dopo quarantacinque minuti, Bush accompagnò Berlusconi a pranzo al piano superiore. A tavola, oltre ai due leader, c’erano i collaboratori più stretti: il consigliere per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice, il segretario di Stato Colin Powell, l’ambasciatore Sembler e Andy Card, capo dello staff del presidente; per Berlusconi il portavoce Paolo Bonaiuti, il consigliere diplomatico Giovanni Castellaneta e l’ambasciatore italiano a Washington Ferdinando Salleo.
() Subito prima del dessert (un’americanissima torta di mele), Berlusconi cominciò a spiegare a Bush la necessità che un’azione militare avesse solide giustificazioni, anche formalmente corrette, dal punto di vista del diritto internazionale. () «Volevo trovare una maniera amichevole e ironica di trasmettere il mio messaggio», racconta. «In fondo, stavo dicendo al presidente degli Stati Uniti che non ero favorevole a un’azione militare. Così sull’aereo, in volo tra Londra e Washington, avevo passato ore con Valentino Valentini per tirar fuori una bella storia, una favola, una specie di allegoria». La storia di Berlusconi richiese più di dieci minuti. Era lunga. Era complicata. Era un po’ tirata per i capelli. Alle persone sedute a tavola il premier italiano parve estremamente animato, pronto a interpretare le parti dei diversi animali e a mimare varie scene di una foresta di fantasia.
() Quando Berlusconi finì di raccontare il suo lungo e intricato aneddoto, gli ascoltatori alla Casa Bianca risero educatamente. Poi tutti guardarono il presidente. Nella stanza si sarebbe sentita volare una mosca. «Tutti risero alla fine della storia» ricorda Berlusconi. «Tutti tranne George…». George W. Bush è un uomo di poche parole. «Già», disse il presidente degli Stati Uniti d’America a Silvio Berlusconi. «I’m gonna kick his ass! ». Io a quello… Come ricorda Berlusconi, quella dichiarazione d’intenti fu seguita da un’altra lunga storia, stavolta raccontata da Bush, su come Saddam Hussein avesse tentato di assassinare suo padre George. «Il presidente Bush aveva una particolare… diciamo una convinzione particolarmente fondata, una vera certezza: che Saddam Hussein fosse una minaccia per tutta l’umanità e dovesse essere eliminato», ricorda Berlusconi. Al momento di lasciare la Casa Bianca, Berlusconi si rivolse ai suoi consiglieri e disse che di sicuro Bush non avrebbe cambiato idea.
() Quel giorno, nelle successive dichiarazioni pubbliche, Berlusconi si fece forza e continuò a offrire il suo leale sostegno a Bush, come l’indomani avrebbe fatto Tony Blair, anche lui in visita alla Casa Bianca. La stessa sera, Berlusconi e il suo staff ripresero l’Airbus per il rientro a Roma. Sul suo diario personale, quella notte, tra jet lag e spossatezza generale, Berlusconi ricorda di aver scritto qualche appunto sulla sua missione fallita. Le cose non erano andate come aveva sperato. IlGiornale